L’Istituto della Fondazione Don Gnocchi ha accolto la visita prenatalizia di monsignor Delpini, che ha celebrato la Messa nella domenica della Divina Maternità di Maria. Nell’omelia l’invito a creare «un'umanità nuova»
di Annamaria
Braccini
Le donne e gli uomini che vedono nei disastri, capaci di mettere fine a un’umanità e a una società troppo scontente e cattive, l’unico rimedio e, d’altra parte, l’umanità nuova che, duemila anni fa come oggi, si rallegra per l’annuncio della venuta del Signore e vive con uno stile che a lui si conforma. Nella VI domenica dell’Avvento ambrosiano, detta della Divina Maternità di Maria, come tradizione l’Arcivescovo celebra l’Eucaristia nella grande chiesa interna all’Istituto Luigi Palazzolo, alla presenza – per la prima volta dopo la pandemia – di un gran numero di ospiti con i loro familiari, medici, operatori, volontari.
Concelebrano la Messa don Enzo Barbante, presidente della Fondazione don Gnocchi (di cui fa parte l’Istituto), monsignor Andrea Manto (membro del Cda della Fondazione) e il cappellano don Enzo Rasi, che porge il saluto di benvenuto ricordando l’ininterrotta presenza dell’Arcivescovo al Palazzolo nell’imminenza del Natale (alla quale, nel 2022, si è aggiunta la celebrazione del 14 giugno scorso per suggellare la canonizzazione del santo fondatore dell’Istituto). Accanto a loro, in altare, il diacono permanente Sergio Legramandi, che da settembre svolge servizio pastorale presso la struttura.
Non mancano, tra i tanti fedeli, il direttore generale della Don Gnocchi Francesco Converti, il direttore del Palazzolo Antonio Troisi, altri rappresentanti delle due realtà e gli Alpini.
L’umanità disperata e troppo scontenta
«Forse, nel tempo dell’umanità troppo scontenta, il diluvio fu salutato come una soluzione e, anche oggi, ci sono persone che immaginano i disastri come rimedi purificatori», osserva subito l’Arcivescovo che nell’omelia (leggi qui il testo) avvia la sua riflessione «dall’umanità troppo lamentosa e infelice e dalla vita così complicata da far scappare la voglia di vivere e di diventare adulti».
Eppure, l’annuncio, il kaire dell’angelo Gabriele a Maria racconta un’altra storia fatta di gioia e di speranza: «L’opera di Dio si prende cura dell’umanità non con minacce e castighi e la guarisce della tristezza, dalla disperazione, della rassegnazione. Noi celebriamo questa domenica della Divina Maternità riconoscendo che l’annuncio dell’angelo è il principio di una umanità sempre nuova, anche dopo millenni, di una storia che inizia con un incontro personale, con un’annunciazione. Il principio non è l’insopportabile tristezza, non è l’esasperazione per la situazione desolata che causa una reazione di ribellione, ma è vocazione che incoraggia a intraprendere la missione. Di fronte a questo annuncio possiamo dire “eccomi, sì, amen” oppure “no, preferiamo i disastri”».
Ma quali sono i caratteri distintivi di questa nuova umanità? Anzitutto, suggerisce, la fiducia che non è «ingenuità o ottimismo».
L’umanità nuova
«L’umanità nuova ha fiducia perché prega e attinge a una sorgente inesauribile di gioia», come dice Paolo nella Lettera ai Filippesi, appena proclamata. «La gioia cristiana è uno dei segni più persuasivi della fede, perché non è frutto delle soddisfazioni, dei desideri e dei successi, tutte gioie effimere e precarie. È frutto, invece, di quel dimorare nel Signore che non abbandona mai. È la comunione con il Signore che fa custodire la gioia nei giorni facili e in quelli difficili, nei giorni della salute e della malattia, della giovinezza e della vecchiaia».
Altra peculiarità, la conformazione a Cristo: «L’umanità nuova si configura all’umanità di Gesù. Dobbiamo e possiamo fare tante cose, ma il tratto che rivela lo stile di Gesù è l’amabilità. Accogliamo l’annuncio e vivremo la vocazione a essere, con semplicità, umiltà e discrezione, uomini e donne impegnati a scrivere una storia nuova, quella dell’umanità nuova».
Al termine della celebrazione è il direttore Troisi, a nome di tutte le componenti dell’Istituto, a ricordare la costante vicinanza dell’Arcivescovo, che definisce infine il Palazzolo «una casa in cui si realizza il desiderio di volersi bene e di rendersi amabili».
L’incontro con il Cda e il personale
Ed è ancora Troisi ad aprire il successivo momento di incontro e di scambio di auguri, parlando del «clima organizzativo di alto livello realizzatosi nella nostra struttura anche con la partecipazione delle parti sociali. Il “Palazzolo” può guardare a testa alta Milano: sono le persone che fanno la differenza. Questa realtà, che è stata ferita profondamente – il riferimento è al periodo più tragico della pandemia, ndr – oggi è rinata definitivamente».
Parole cui fanno eco il direttore generale Converti – «mi onoro di essere un umile servitore di un’opera straordinaria come la Fondazione Don Gnocchi» – e don Barbante che sottolinea: «Questo è un luogo nel quale la restaurazione dell’uomo, come diceva don Carlo, si fa testimonianza, considerando sempre la dignità delle persone e non lasciando mai soli i più fragili. Siamo chiamati costantemente a fare del nostro meglio, ma dobbiamo anche sapere leggere quel bene che facciamo ogni giorno, perché siamo una bella comunità. Non solo noi offriamo una testimonianza, ma la riceviamo dai nostri ospiti e dalla dedizione di tanti. In questo cammino quotidiano siamo incoraggiati dalla vicinanza di molte persone e del nostro Vescovo. Mi piace immaginare il Natale come un momento che, tornando ogni anno, ci spinge a essere consapevoli che il Signore cammina con noi».
Palazzolo e don Gnocchi: la carità che nasce dalla fede
«Due santi come Palazzolo e don Gnocchi hanno visto dei bisogni, delle povertà, hanno raccolto dei gemiti e hanno cominciato la loro opera. Mi colpisce sempre pensare che il principio da cui è nato tutto questo sia stata un’esigenza intrinseca della loro fede, non a caso qui al centro c’è la chiesa», conclude l’Arcivescovo.
«Oggi il nostro contesto sembra che non si interessi più della fede, ma una Fondazione come questa, se vuole esser fedele ai suoi principi, deve reagire all’appiattimento del presente, offrendo certamente cure e protocolli adeguati, ma soprattutto la spiritualità. Non si tratta solo di standard di eccellenza nella prestazione, ma di dare testimonianza. La chiesa è nel cuore del Palazzolo non come un retaggio del passato, ma come un invito alla speranza. Nelle strutture pubbliche i cappellani vengono spesso sentiti come qualcosa in più, mentre la dimensione spirituale fa parte integrante della cura. Dare testimonianza è il vostro compito profetico di fronte al rischio che ci siano opere di carità senza la fede che le ha generate. Che questo Natale sia sereno e di pace non solo a livello generale, perché gli uomini capiscano che non possiamo continuare a spararci addosso, ma anche a livello personale, perché possiate avere dentro di voi la riconciliazione, riconosciate i doni ricevuti e abbiate momenti per pregare, per riflettere. Il Natale non è un ingenuo ricordo dell’infanzia, ma è Dio che si svela in Gesù, è la presenza del Signore nella storia, non è una commemorazione, ma è vocazione».
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