Don Mario Antonelli, Vicario episcopale, riflette sul messaggio con cui l’Arcivescovo invita a pregare, a digiunare e a condividere il suo appello: «Un impegno che lega giustizia e amore, nella logica del perdono»

di Annamaria Braccini

giovani Sant'Egidio pace

Un messaggio che è anche un appello per la pace e un invito per tutti a «cambiare il cuore», a percorrere cammini di conversione nei comportamenti e nella coscienza personale e collettiva. È quello che l’Arcivescovo ha scritto in questi giorni – nei quali ricorre il primo anniversario dell’aggressione russa all’Ucraina – e che può essere sottoscritto online (a questo link) fino alla Domenica delle Palme (leggi qui). A riflettere sul significato dell’iniziativa è don Mario Antonelli, vicario episcopale per l’Educazione e la Celebrazione della Fede.

Il messaggio si articola su diversi piani: la preghiera, l’appello, la conversione. Quale è il senso complessivo di questa proposta? 
Questo forse è ciò che caratterizza tale invito, rivolto ovviamente non solo ai fedeli ambrosiani, ma a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che desiderano e vogliono la pace. La nota dominante è il suo essere una preghiera, tutt’altro che buonista. Infatti, il documento è come “scortato” dalla richiesta del digiuno e di una firma, tanto che potremmo intitolare il messaggio per questa Quaresima «La preghiera, il digiuno, la firma per la pace». Accompagnando, così, la preghiera che l’Arcivescovo propone di condividere nel tempo quaresimale, diamo concretezza alla scelta di confidare al Padre il nostro struggente desiderio di pace e la nostra disponibilità fattiva a metterci in sintonia con lui che, costantemente, infonde la pace nei cuori di ogni creatura. Quindi, la preghiera dell’Arcivescovo ha il senso di disporci con mitezza e docilità a condividere la pace di Dio.

Don Mario Antonelli

Per questo l’Arcivescovo ha anche composto una preghiera vera e propria, un Padre nostro «perché non vogliamo rassegnarci e non possiamo permettere che il fratello uccida il fratello, che le armi distruggano la terra»…
Direi quasi che in questo messaggio, e in particolare nella preghiera che l’Arcivescovo condivide con tutti noi, risuona una sorta di controcanto a quello che dice il profeta Geremia, che eleva il suo lamento e il grido d’impotenza dicendo: «I miei occhi grondano lacrime notte e giorno senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale». E aggiunge: «Se esco in aperta campagna, ecco i feriti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame». Il profeta, l’Arcivescovo – e, quindi, anche noi con lui -, descrivono questo scenario che ci atterrisce, provocando un grido d’impotenza, un desiderio struggente della pace. Il profeta, però, chiude il suo lamento osservando che «anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare». Forse anche noi non sappiamo che fare – non a caso, l’Arcivescovo parla di impotenza nella sua preghiera -, ma, insieme, intuiamo che il digiuno, cioè un gesto che tocca il corpo e fa sentire fisicamente fame e sete, ci mette in sintonia empatica con quanti hanno fame e sete di giustizia e di pace. Inoltre, il gesto della firma di un appello, che poi raggiungerà l’intelligenza e il cuore dei politici e delle diplomazie – perché a loro vorremmo consegnare le firme raccolte – significa coinvolgersi in prima persona a favore della pace apponendo il proprio nome. Un qualcosa che ognuno può fare, con semplicità.

Il 3 marzo, primo venerdì di Quaresima, l’Arcivescovo invita a partecipare a un momento di digiuno e di preghiera con lui, dalle 13 alle 14 in Duomo. Questo gesto, insieme simbolico e reale, può essere considerato un modo per concretizzare quel cambiamento che viene chiesto?
È un appuntamento rivolto a coloro che desiderano e vogliono essere operatori di pace e, in modo particolare, ai credenti tutti. Vorrei, qui, sottolineare l’ampiezza ecumenica di questo momento di preghiera, di impegno, di sensibilizzazione, che riconosce che non si può realizzare la pace se non lavorando tutti per la giustizia e impegnandosi nell’amore. Papa Francesco insiste sempre su una tradizione magisteriale che associa strettamente la pace con la giustizia e con l’amore, nella forma in particolare del perdono, quasi che la pace sia figlia dell’amore e del perdono, quasi che la giustizia sia la madre della pace e l’amore il padre. Per questo, appunto, sorge poi connaturale l’impegno della preghiera, perché la pace fruttifica non soltanto da un’applicazione sistematica della giustizia e dei suoi diritti, ma dove la giustizia va di pari passo con l’amore, che spinge oltre, nella logica del dono, della sovrabbondanza, del perdono.

 

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