L’incontro tra Ambrogio e Agostino spunto tematico della prima serata del ciclo 2019-2021. Allo Studio Melato il monologo di Giacomo Poretti su testo di Luca Doninelli, con le testimonianze di due studenti “nuovi milanesi”
di Annamaria
BRACCINI
Le storie facili da raccontare – quelle di draghi, unicorni, cavalieri volanti – e quelle difficili, perché parlano di noi e sono le nostre storie. La serata che, con grande successo di pubblico, segna il riavvio dei «Dialoghi di vita buona» narra proprio di una vicenda a suo modo paradigmatica, apparentemente lontana nel tempo, ma vicinissima nello spazio e ai sentimenti di ciascuno. Infatti il profilo del Duomo che si disegna per un attimo sul telo che fa da sfondo al palcoscenico del Piccolo Teatro Studio Melato è l’orizzonte ideale dell’evento-spettacolo articolato attorno all’aggettivo «ambrosiano», primo termine di riferimento scelto dal Comitato scientifico dei «Dialoghi» nel tema individuato per il biennio 2019-2021, 174Un vocabolario per Milano. Sostantivi, aggettivi e verbi per una metropoli d’Europa».
È presente l’Arcivescovo e accanto a lui siedono il direttore del Piccolo Sergio Escobar, i rettori dell’Università Statale e Cattolica, del Politecnico e lo scrittore Luca Doninelli, a cui si deve il testo su cui si cimenta Giacomo Poretti nel suo monologo dedicato a «Ambrogio e Agostino, conoscersi per riconoscersi».
Il monologo
Con la consueta bravura e vivacità, tra qualche battuta in dialetto e qualche dotta allusione, prendendo spunto dalle Confessioni e dall’incontro tra Agostino e il Santo vescovo, va in scena lo spirito della Milano che, oggi, come 1600 anni fa, è capace di accogliere, integrare e diventare la terra madre dei tanti che, venendo da lontano, l’hanno costruita. Come il tedesco Ambrogio, nato a Treviri, nelle Gallie, e il retore africano Agostino. Parola del futuro vescovo di Ippona: «Questa città è stata abituata nei secoli a ricevere le visite a ogni ora del giorno: bussavano al portone, e voi milanesi ad aprire, e dentro romani, ostrogoti, visigoti, africani, spagnoli, francesi, austriaci, tedeschi, americani, meridionali, peruviani, filippini. Alla fine, dopo poche settimane, mi sentivo milanese “cento pe’ ccento” come i meridionali venuti qua negli anni Cinquanta».
O come i due ragazzi che, in momenti diversi della serata, affacciandosi dalla seconda balconata, parlano di loro: Omeneda Zaid, di origine egiziana, e Zhupeng Zhou, nato a Milano da genitori cinesi. «Era il 25 dicembre del 1999 e mia madre stava rincontrando mio padre – racconta lei -. Aveva una bambina neonata in braccio e un bimbo di 5 anni per mano. Le difficoltà sono state molte, ma da lì è partita la nostra vita. Mio padre faceva tanti lavoretti, distribuiva giornali e pane, poi si è fatto la sua piccola impresa di traslochi». La madre non ha mai mollato, ha voluto imparare l’italiano ed è andata chiedere aiuto in oratorio. Lei, Omeneda, dopo qualche disavventura scolastica ha preparato i due ultimi anni di liceo da sola, passando alla maturità e all’esame di ammissione in Cattolica, dove è ormai prossima alla laurea in Economia: «Oggi siamo 4 figli, una laureata in Beni culturali che vive a Londra, mio fratello grande, medico in Olanda, e il piccolo che è nato milanese».
Prosegue il monologo di Poretti: «Quando Dio ha scacciato i nostri antenati dal Paradiso urlandogli “d’ora in avanti ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte”, mi viene il dubbio che Adamo e sua moglie fossero stati milanesi e che da allora la maledizione del lavoro si sia incistata dentro al nostro Dna».
La storia di Zhupeng, futuro ingegnere, è come una risposta: «Sono nato nel 1993. I miei genitori desideravano che Milano fosse la nostra casa e così è stato. Ricordo l’appartamento alla Bovisa, le lasagne, le mie maestre, gli amici Marco e Federico con cui giocavo a calcio. Dopo un periodo fuori città, ho frequentato le scuole medie a Quarto Oggiaro, in un ambiente che è stata una sfida e dove ho capito che essere diversi è giusto, mentre è sbagliato trattare gli altri in modo diverso». Poi l’Istituto tecnico a Niguarda, la passione per le materie scientifiche, l’iscrizione al Politecnico, la futura laurea in Ingegneria dell’automazione, la fondazione dell’Associazione “Shoulashou. Diamoci la Mano” per diffondere la conoscenza della cultura e della vita cinese: «Così sono arrivato a oggi: ieri ho fatto l’albero di Natale, ora sono a teatro e domani sarò ingegnere. La mia è una storia semplice, la storia di un milanese».
Il lavoro di “Portofranco”
Evidente, in tutto questo, il ruolo della formazione scolastica. Arriva così la testimonianza di Franca Bonola, dell’Associazione “Portofranco” Onlus, nata a Milano nel 2000 da un gruppo di insegnanti impegnati ad aiutare una ventina di ragazzi in difficoltà negli studi. Da allora, nella storica sede di viale Papiniano, sono passati in tanti: solo l’anno scorso 1500 studenti, 300 dei quali stranieri, per un totale di 15 mila ore di lezione impartite da 300 volontari, insegnanti, docenti in pensione e giovani universitari. «La dispersione scolastica è una piaga anche per la città di Milano – spiega -. Vogliamo favorire il rapporto personale con i ragazzi, perché si sentano accompagnati nella loro fatica, perché niente fa rinascere come il rapporto umano. Non crediate che questo sia qualcosa di meno importante rispetto al voto. Se si mette in moto la gratuità arriva anche il voto».
Infine, il blocco finale del monologo, attraverso l’incontro con Ambrogio, la conversione definitiva di Agostino, il suo dialogo interiore con Dio, il battesimo e gli appalusi che scrosciano per Poretti, che con Escobar e Doninelli ha ideato e costruito la rappresentazione scenica.
Monsignor Luca Bressan, vicario episcopale, sottolinea: «L’origine di questo progetto è costruire un tavolo di reciproca conoscenza tra chi partecipa all’edificazione di Milano, sempre più soggetto unico della grande trasformazione della metropoli. Nei giorni di Sant’Ambrogio abbiamo voluto parlare di “ambrosianità” attingendo alla nostra memoria, attraverso figure di non milanesi che hanno fatto tanto e sono entrate nel cuore della nostra storia. Nel 2020 avremo altri quattro incontri: uno sul destino di Milano e in Statale dialogheranno l’Arcivescovo e il Sindaco; uno sul lavoro, analizzato dai punti di vista antropologico ed etico; uno sul tema della malattia e della morte e uno su quello delle religioni. Ma nel Comitato scientifico stiamo già lavorando a ulteriori oggetti di studio, quali l’ecologia».
Il saluto dell’Arcivescovo
«Credo di poter dire che i “Dialoghi di vita buona” non siano un esercizio da salotto, ma piuttosto un interrogarsi e un lasciarsi interrogare» – conclude l’Arcivescovo, augurando un buon percorso verso il Natale -. Non vogliamo proporre un’esercitazione accademica, ma porre delle domande e coinvolgere nella ricerca delle risposte, essendo presenti là dove si vive, il treno al mattino che porta al lavoro, le Università, i luoghi dove si decidono le attività economiche». Insomma, un mettersi in gioco e quasi una «conversione» che cambia la vita, come «ben racconta l’essenzialità della vicenda di Agostino». «Così vedo questo percorso. L’essere milanesi può essere interpretato come un dovere qualcosa agli altri e non come un piedistallo da cui esibire le proprie eccellenze, ma come un debito verso chi, ad esempio, viene dall’Egitto e si laurea in economia, chi è cinese di origine e si laurea in ingegneria. Noi abbiamo ricevuto e, perciò, dobbiamo domandarci cosa fa Milano per tutte le altre terre e per l’Italia».