L’Arcivescovo ha presieduto la Veglia zonale in occasione della Giornata di preghiera e digiuno che la Chiesa celebra ogni anno nell’anniversario dell’assassinio di monsignor Romero
di Annamaria
Braccini
«Siamo turbati dai nomi dei nostri fratelli che sono morti per la loro fede, dalla guerra che semina distruzione nella terra d’Europa, da delitti che ci impressionano, dalla cronaca di tutti i giorni che ci sconcerta. Ma, invece di lasciarci andare allo scoraggiamento, avendo ricevuto lo spirito di Gesù, possiamo raccogliere tutti questi nomi consegnandoli al Padre, invocando che venga il suo regno di giustizia, di amore e di pace». La breve riflessione con cui l’Arcivescovo introduce il Padre Nostro, durante la Veglia per i martiri missionari, è la sintesi della serata di preghiera e digiuno che si svolge, presso la parrocchia dei Santi Marco e Gregorio a Cologno Monzese in Zona pastorale VII, per celebrare la Giornata dedicata a chi ha dato la vita per testimoniare la fede. Nella data esatta dell’omicidio, avvenuto nel 1980, dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, oggi santo, la Giornata è giunta alla sua 30esima edizione, promossa da “Missio”, organismo della Cei, e dal Festival della Missione, la grande kermesse in programma a Milano dal 29 settembre al 2 ottobre.
I gesti simbolici
Un momento ricco di raccoglimento e di gesti suggestivi come il Rito della Luce, con cui si apre la preghiera, e quello, appunto, di scandire i nomi di tutti i 22 missionari uccisi nel 2021- sacerdoti, religiosi e religiose, laici e consacrati – letti sulle note del Nada te turbe, nada te espante – Nulla ti turbi, nulla ti spaventi del canone di Taizé, mentre delle fiammelle vengono portate davanti a un piccolo mappamondo posto in altare maggiore. Dove sono accanto all’Arcivescovo, che presiede il rito, il decano del decanato Cologno Monzese-Vimodrone don Pino Valente (in rappresentanza del vicario di Zona, monsignor Antonio Novazzi, assente causa pandemia), e don Paolo Masolo, missionario del Pime e collaboratore dell’Ufficio Missionario della Diocesi. Tanti i fedeli presenti e molti i sacerdoti (tra cui il parroco don Angelo Zorloni), che non hanno voluto mancare alla Veglia, significativamente intitolata «Voce del Verbo». Voce del Signore, ma anche di chi non ha voce e di chi non c’è più, come il nostro giovane ambasciatore nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, barbaramente ucciso il 22 febbraio 2021 con il carabiniere di scorta e l’autista, durante l’agguato a un convoglio umanitario del Programma Alimentare Mondiale. A testimoniare il significato esemplare di una vita troppo breve, ci sono i genitori con il papà Salvatore che prende la parola.
Luca Attanasio: ambasciatore missionario della giustizia
«Per un genitore non è mai semplice ricordare il proprio figlio, perché dovrebbe essere il contrario. Luca era cresciuto in oratorio e aveva fin da ragazzo uno spirito altruista, continuando sempre a applicare questo principio in tutta la sua vita», dalla laurea con lode alla “Bocconi”, alla scelta della diplomazia, «perché aveva capito che così avrebbe potuto dare spazio ai suoi sogni».
«Gli spettava il titolo pubblico di eccellenza, ma era una persona semplice e buona che diceva, incontrando le persone, “piacere sono Luca”», sottolinea Salvatore Attanasio con la voce incrinata dall’emozione. «Si era molto impegnato, in Congo, con i bimbi abbandonati. Uno dei suoi progetti era, infatti, togliere i bambini dalla strada».
Da qui la nascita della Fondazione “Mama Sofia”, voluta dal diplomatico e dalla moglie Zakia, con lo scopo di dare un futuro ai più sfortunati tra i piccoli, e l’avvio di una rete di varie associazioni attive sul territorio, oggi concretizzatasi con il nome “I bambini dell’ambasciatore”, che raccoglie, oltre a “Mama Sofia”, altre 14 realtà, al fine di creare orfanotrofi e spazi di crescita e di alfabetizzazione. «Mio figlio, in occasione del conferimento del Premio Nassiryia per la Pace 2020, disse: “Fare l’ambasciatore è una missione”. Ricordiamo Luca, sognatore non di utopie ma di sogni realizzabili, perché i suoi valori di uomo con la schiena dritta vengano raccolti specie dai giovani», conclude il padre.
E, così, all’immagine di Luca, un ambasciatore che si definiva missionario della pace e della giustizia, si sovrappone l’idea stessa di come vivere la fede in un mondo spesso distratto, egoista e autoreferenziale, come suggerisce l’omelia dell’Arcivescovo (qui il testo integrale).
L’omelia
«I missionari martiri sono vivi per attestare che le tribolazioni della storia, le ferite ricevute dai fratelli, le condanne ingiuste, l’odio infondato, il disprezzo immeritato, niente impedisce a loro di essere fuoco e di irradiare luce. Ricordiamo Oscar Romero, ammazzato mentre celebrava l’Eucaristia, e tutti coloro che sono stati donne e uomini della congiunzione, quando soffrono, sono emarginati, umiliati: li ricordiamo con ammirazione, così come l’ambasciatore Luca, con un’ammirazione che incoraggia all’imitazione. Dunque, non un popolo della paura, dell’io, della presunzione che comanda, ma un popolo che vive per la gratitudine del dono ricevuto e per la meraviglia».
Il popolo delle paure e della presunzione
«Il popolo delle paure, smarrito nell’incertezza e nella confusione si rassicura quando si definisce con il pronome “io” che esprime la professione della solitudine, la difesa della propria tranquillità indisturbata, la rivendicazione della propria autonomia, l’insofferenza verso ogni regola esterna. “Io” per dire le scelte inappellabili e la compiacenza di sé, per ritrarsi dal confronto e dalla relazione: “io” per dire il sospetto che ogni tu possa essere una minaccia, un inganno, una promessa che non sarà mantenuta». Un’umanità – questa – a cui si affianca il «popolo della presunzione esprime la sua sicurezza, la sua arroganza, la sua volontà di potenza, la sua pretesa con i verbi “voglio, posso, faccio, prendo, comando”. Il popolo della presunzione non ama i discorsi, è infastidito dalle parole, si annoia nel silenzio, non è incline a pensare».
Il popolo dei discepoli
Ma, poi, c’è il popolo dei discepoli che non si qualifica con il pronome personale o con i verbi, ma con la «la congiunzione “quindi”», come si legge nella prima Lettera di san Giovanni al capitolo terzo, appena proclamata.
«“Quindi” per dire che i discepoli sono vivi di una vita ricevuta, si comportano in conformità a Colui che ha fatto della sua vita un dono e ha seminato in loro il principio del fuoco che arde perché accende altro fuoco. “Quindi” è lo stupore, l’emozione, la gratitudine di essere costituiti da una intenzione di comunione, partecipi di un ardore che il tempo non stanca, che il contesto non soffoca, che le tempeste non riescono a spaventare. “Quindi” è la radice del martirio e della testimonianza nella buona e nella cattiva sorte. Quindi, appunto, così sono i martiri: non eroi, non persone dotate di qualità straordinarie, di qualche forza superiore di resistenza e di temerarietà, ma gente che non si sente autorizzata a negare di essere frutto di un dono, che semplicemente si consegna per il bene dei fratelli dicendo la verità e praticando il comandamento di Colui per cui sono vivi».