All'Ambrosianeum il dibattito tra Michela Marzano e Sabino Chialà nel contesto della Settimana dei Centri culturali, che si conclude il 27 novembre. Videomessaggio dell'Arcivescovo: «Abbiamo qualcosa da dire e da dare»
di Annamaria
Braccini
Un dialogo intenso e ricco di risonanze esistenziali – non solo di ragione, ma anche di cuore – per parlare di oggi, del domani, di quello che abbiamo tutti vissuto con la pandemia e di come vorremmo ripartire. L’incontro-clou della seconda Settimana dei Centri culturali cattolici della Diocesi, svoltosi presso la Fondazione Ambrosianeum, ha definito, con una particolare efficacia comunicativa, ciò che il Servizio per il coordinamento dei Centri, in collaborazione con l’Associazione Cattolica Esercenti Cinema di Milano, ha inteso proporre con il titolo complessivo della Settimana: «Come Lievito, per dare pienezza alla vita».
A confrontarsi sul tema, nell’evento vissuto in presenza e trasmesso in diretta streaming in quattro Sale della comunità – l’Auditorium San Luigi di Somma Lombardo, il Cineteatro Sacro Cuore di Busto Garolfo, La Campanella di Bovisio Masciago, il Cineteatro Agorà di Cernusco sul Naviglio -, la scrittrice e filosofa morale Michela Marzano e Sabino Chialà, monaco di Bose e studioso, moderati dal giornalista Alessandro Zaccuri.
Dopo il saluto introduttivo, portato dal responsabile del Coordinamento e presidente di Acec Milano, don Gianluca Bernardini, il vicario episcopale di settore, monsignor Luca Bressan, sottolinea: «Abbiamo la fortuna e la gioia di ritrovarci, anche se niente è assicurato visto le notizie del Covid e le tragedie che non dobbiamo e possiamo dimenticare, come i migranti morti nella Manica o la vicenda dell’Afghanistan, che doveva dimostrare la forza di un luogo di pace ed è diventata la manifestazione della nostra debolezza. La paura non leva la voglia e la potenza di futuro che ci abitano. Questo desiderio è condiviso dell’Arcivescovo che ci consegna l’impegno di essere atti della politica della speranza». Un invito all’impegno che torna nel videomessaggio di monsignor Delpini.
Il videomessaggio dell’Arcivescovo
«La fatica non vi ha scoraggiato e nemmeno le complicazioni che la pandemia ha imposto – dice subito l’Arcivescovo esprimendo la propria ammirazione -. Abbiamo qualcosa da dire e da dare nel nostro territorio, così contratto dalla prudenza, ma capace di reagire. Il momento di partire è adesso, perché, per come vedo le cose, c’è una ripartenza, ma il pericolo è che prevalga la frenesia, per cui non si riparte con un umanesimo, ma con un’attività che, più che far crescere l’uomo e la donna, rischia di asservire. Questo è il momento perché voi siate espressione della nostra Chiesa, della Chiesa cattolica che contrasta quella impressione di insignificanza per cui pare che non si abbia niente da dire sull’economia, sull’arte, sulla vita sociale. Il vostro è un servizio alla comunità cristiana che suggerisce che c’è qualcosa da compiere».
La ripartenza del pensare
Con lo stile del lievito «che più non si vede, più agisce», richiamato da Zaccuri come peculiarità dei Centri culturali, Chialà avvia il confronto partendo proprio dall’immagine del lievito, «che può farci capire questo tempo caratterizzato da due elementi, fragilità e complessità». Elementi che «possono condurre a varie reazioni, anzitutto la paura. Ma dobbiamo andare oltre aprendo i nostri scrigni interiori, altrimenti si rischia di rinchiudere il nostro pensiero, perché non ci siamo solo rinchiusi, in questi mesi, ma negati all’altro».
La sfida, per il monaco di Bose, è dunque «quella del dialogo, con una ripartenza del pensare. Il lievito è un’immagine neotestamentaria che Gesù utilizza per parlare del Regno, ma c’è anche il lievito dell’ipocrisia degli scribi e dei farisei. Siamo chiamati a fare emergere il lievito di cui abbiamo tutti bisogno, ma che non sia un lievito falso. La grande fatica è proprio questa: fare in modo che la nostra chiusura fisica non sia anche mentale, e che per noi cristiani, sia un modo per spiegare, con parole comprensibili, percorsi e strade da seguire».
Insomma, occorre mettersi in gioco in prima persona, come testimonia Marzano, autrice del recentissimo saggio Stirpe e vergogna. «Riaprire il dialogo vuol dire riaprire l’ascolto. Sono anni, e non solo per la pandemia, che non ci ascoltiamo anche se tutti parliamo. Chi ascolta parole che disturbano le nostre radicate credenze? La pandemia ci ha ricordato che esiste un muro della realtà che dice la nostra fragilità e che non possiamo tutto. Quando ho letto il titolo dell’incontro mi sono chiesta se io stessa sono lievito e se riesco a riempire la mia vita e quella altrui».
La fiducia
Per rispondere a questo interrogativo «che riguarda tutti» c’è solo una parola per la filosofa: fiducia. «Abbiamo bisogno di fiducia e di credere in noi stessi, ma per aver fiducia, bisogna dare fiducia. Per me il lievito corrisponde a una tale capacità di dare fiducia, riconoscendo l’altro per quello che è. Si precipita nell’abisso della disperazione quando si smette di credere nel futuro, quando nessuno si è preso cura di noi e ci ha riconosciuto per quello che siamo. La fiducia è, insieme, riconoscimento e cura: è ciò che permette di entrare in una relazione nella quale non ci si schiaccia, ma si accompagna». Non è un caso, ha proseguito Marzano, «che questo sia stato pensato, alla fine degli anni Novanta, da un gruppo di donne che ha chiarito la differenza tra indipendenza e autonomia. La cura è pensare per riparare le relazioni, accordando fiducia prima di tutto a noi stessi, perché sennò non saremo mai capaci di assicurala agli altri».
Dopo un intermezzo musicale eseguito al pianoforte da Angelo Mantovani, giovane, ma già molto conosciuto pianista, presidente dell’Associazione “Il Clavicembalo Verde”, che suona Chopin, si torna alla riflessione stimolata da Zaccuri in riferimento «alla cura che si è fatta lievito di tante esperienze, segno, per esempio, della presenza della Chiesa da sempre su questo fronte».
Il lievito buono della cura
«L’uomo è essenzialmente qualcuno che vive l’esperienza di cura: il Covid ci ha sbattuto in faccia la fragilità, ma abbiamo sempre bisogno di cura e Dio si prende sempre cura di noi», spiega Chialà, aggiungendo: «È costitutivo del prendersi cura la coscienza di essere oggetto di cura, anche perché nel curarsi reciprocamente, c’è una vera relazione, oltre le barriere. Colui che è escluso da questo intreccio esclude me: Non esiste chi è fuori e chi dentro, se non nei nostri pensieri illusori: questa è la grande novità del nostro tempo».
Ovvio che ciò comporti una precisa forma di responsabilità anche come comunità, secondo quanto osserva Zaccuri, cui fa eco Marzano: «Care non è cure. Infatti care si può tradurre anche con sollecitudine, perché abbiamo bisogno di fare attenzione agli altri. Usiamo troppo la fredda razionalità, mentre io voglio una filosofia incarnata: bisogna guardare perché siamo abitati da un vuoto che ci fa muovere verso un qualcosa. La pienezza, la ricchezza della vita è la gioia di vivere, non è solo la responsabilità che si può comunicare in maniera semplice, come ai no vax, dicendo che saranno un giorno chiamati a rispondere delle loro azioni. Se nessuno ha mai creduto in noi, nessuno ha mai avuto fiducia, dobbiamo noi avere parole di cura, riaprendo il dialogo, per evitare di ritrovarsi in ideologie chiuse. Per arrivare alla comunità dobbiamo partire dall’io-tu e dal noi, altrimenti deleghiamo e basta. Cerchiamo di avere ragione, ma anche cuore».
Infine, Chialà. «C’è anche un’esperienza di fiducia tradita che può far crescere. Forse possiamo non contrapporre il cuore e l’intelligenza e mettere in dialogo l’interiorità con la nostra esteriorità, cogliendo nell’essere umano la sua essenzialità con uno sguardo che è quello di Gesù che guarda, che tocca e poi parla. Così si può essere capaci di un linguaggio di cura e di salvezza. Pensiamo al Signore che affida ai suoi discepoli un’autorità, che prima di essere quella del predicare, è quella del prendersi cura».