Nel tradizionale Ritiro dei Catecumeni e nel successivo incontro e dialogo con l’Arcivescovo, si è approfondito il senso del divenire cristiani e dell’accompagnamento di questi nuovi credenti in Gesù. Nel 2019, per la Diocesi, 115 adulti provenienti dai 4 angoli del mondo
di Annamaria
Braccini
«Siete preziosi e desiderati, abbiamo bisogno di una giovane gioia».
L’Arcivescovo li saluta così, con affetto e con un sorriso. Loro sono i Catecumeni che vengono da tutta la Diocesi e che riceveranno i Sacramenti dell’iniziazione cristiana nella notte di Pasqua o nel periodo pasquale. 115 adulti, 75 Europei, 17 originari delle Americhe, 11 dall’Asia, 12 dall’Africa. 41 gli italiani, 74 i giovani sotto i 35 anni, 71 le donne. Con i loro accompagnatori nel cammino verso il divenire cristiani – laici, sacerdoti, religiosi e religiose – affollano il Centro Pastorale di via Sant’Antonio fin dal primo pomeriggio, per il Ritiro spirituale che, come tradizione, precede l’incontro e il dialogo con l’Arcivescovo. La preghiera, i lavori di gruppo, la riflessione, a partire dal Vangelo di Giovanni al capitolo 12 – “Vogliamo vedere Gesù… Attirerò tutti a me” – portano all’elaborazione di alcune domande poste al vescovo Mario, cui sono accanto il vicario episcopale di Settore, don Mario Antonelli e il responsabile del Servizio per la Catechesi e della Sezione per il Catecumenato, don Antonio Costabile.
«La nostra Chiesa è meravigliosa, ma come tutte quelle dell’Occidente avverte la fatica di guardare con fiducia al futuro, anche se a qualcuno di voi che viene da lontano, questo può apparire stupefacente», osserva subito l’Arcivescovo che ringrazia gli accompagnatori che hanno vissuto questo cammino con tanta passione e costanza.
Il dialogo con l’Arcivescovo
Iniziano le domande. «Come donarci agli altri nella vita quotidianamente costellata da piccoli e grandi problemi? Lei ha mai avuto dubbi nella fede? Si può perdonare una persona che ci ha fatto del male?».
«Come si dice nel Vangelo di Giovanni che avete meditato, la vita è dono. Certo, il donarsi non è facile, ma è un modo di vivere la complessità dei problemi. Noi riusciamo a fare della vita un dono perché viviamo in comunione con Gesù. Il nostro donarci è frutto di un’appartenenza, di una grazia», risponde il Vescovo che usa l’immagine del vento propizio che fa scivolate la barca a vela sul mare. «Bisogna lasciarsi spingere dal vento amico dello Spirito, anche laddove il mare non è così calmo o affascinante. Il ricordo quotidiano di ciò che Dio fa per noi, l’affidamento e la preghiera farà di ogni giorno un’occasione per donare la nostra vita. Fidiamoci di Dio, e alla fine della giornata, chiediamoci se abbiamo fatto della nostra vita un dono, chiediamo perdono al Signore e la mattina dopo rincominciamo. La vita cristiana è una grazia e portiamo molto frutto se amiamo come il Cristo».
Poi, i dubbi sulla fede. «Non mi ricordo grandi dubbi, sono stato fortunato, ho avuto una vita facile, anche se in alcuni momenti ho dovuto approfondire la mia fede, quando, soprattutto, vi sono state sofferenze in persone che amo. Dio non chiede niente se non che noi siamo felici nel seguire la sua strada».
Come perdonare chi ha fatto del male e ha tradito? «È possibile perché si è uniti a Gesù e, così, si può fare ciò che Lui ha fatto anche nel momento estremo della vita e ha raccomandato ai discepoli. La capacità di perdono dipende dalla docilità al lasciarsi condurre dallo Spirito santo. Io ho sempre ritenuto più facile perdonare che vendicarsi. Se non perdoni, che vita fai? Che modo di vivere è lasciarsi prendere dal risentimento e dalla rabbia? E più ragionevole perdonare, andando al di là degli istinti e non contrapponendo male a male». Anche perché «è più facile riconciliarsi subito che aspettare che passi la rabbia. La Pasqua può essere un’occasione propizia per un piccolo gesto di riconciliazione, c’è un rapporto tra essere perdonati da Dio e perdonare: Lui ci offre la sua grazia è noi dobbiamo renderla operativa».
Ancora interrogativi. «Come porsi di fronte a chi fa un uso politico del Vangelo? Come facciamo a diventare noi stessi apostoli?»; un accompagnatore chiede come poter continuare a seguire il cammino dei neo battezzati e come essere strumento e mezzo per comunicare la fede non divenendo una barriera allo spirito.
«La politica, per quanto oggi sia un poco screditata, è una parola nobile perché vuol dire la cura per la città e il bene comune. Un prendersi cura che è incoraggiato dal Vangelo, perché la comunità che lo vive, costruisce la città e, quindi, deve impegnarsi nella politica, come responsabilità per edificare la giustizia e una convivenza pacifica. Il Vangelo motiva a curarsi del bene comune che non è soltanto un invito a fare qualche buona azione, ma a costruire la polis».
Altra cosa è, evidentemente, usare una pagina o l’altra del Vangelo in modo strumentale. «In democrazia abbiamo la possibilità di votare contro chi fa questo uso. Non si guadagna il consenso politico citando il Vangelo, ma proponendo un programma politico ispirato al Vangelo e al bene comune. In democrazia sosteniamo chi ha a cuore questo, valutando, non le citazioni, ma le persone e i programmi».
Insomma, il Vangelo come tale non deve essere strumento, ma ispirazione per dare concretezza a scelte di amicizia civica. «Abbiamo il diritto di far convergere il consenso laddove il progetto ci pare sia più coerente. La politica è fatta di chiaroscuri e noi cristiani dovremmo inserire nella società italiana la passione per il bene comune». Come a dire, se qualcuno propone, ad esempio, le leggi razziali – l’esempio lo fa lo stesso vescovo Mario – , abbiamo il diritto-dovere di fermarlo.
Si prosegue: «Come si fa a essere testimoni e annunciatori del Vangelo?
«Essendo contenti della propria fede e capaci di dare ragione della speranza che abbiamo in noi. Essere testimoni è come essere apostoli, cioè significa vivere la fede, dandone le ragioni. Spesso rischiamo di ridurre la testimonianza a buon esempio e non parliamo di ciò in cui crediamo, mentre la testimonianza è anche parola, provocazione». Ci sono, inoltre, le forme di speciale consacrazione, per cui si dedica l’intera vita al Signore e, comunque, occorre «accogliere gli incarichi che la comunità cristiana chiede».
«È importante lasciare andare, nella libertà, coloro che si sono accompagnati. La preghiera per queste persone ci sia sempre. Ognuno deve fare la propria strada, ma ogni volta che si ricorda un anniversario, magari nella data in cui il Catecumeno è diventato cristiano, siate attenti. Talvolta, il rischio è di dare più importanza al messaggero che il messaggio da annunciare. Bisogna sempre fare un esame di coscienza sul perché ci impegniamo in questo servizio, se è per la nostra gratificazione o per il bene altrui».
Infine, ancora domande sul linguaggio da usare e sul coinvolgimento della comunità nel cammino personale del Catecumeno. Un po’ di discrezione non fa male, perché già il cammino catecumenale, così come è strutturato nella nostra Chiesa, contiene momenti di partecipazione condivisa della comunità».
Il linguaggio è «un tema grande e complicato», ma deve essere ben chiaro, suggerisce l’Arcivescovo che «prima c’è l’annuncio dell’essenziale – Gesù – e, poi, si può elaborare un pensiero e una dottrina, che servono a capire, ma che sono, comunque, meno importanti del kérigma.
E, prima del momento conviviale e del successivo ritrovarsi in Duomo per la consegna del simbolo della fede anche ai Catecumeni, nella Veglia in “Traditione Symboli”, quello che il Pastore lascia è quasi un decalogo per chi vuole accompagnare altri nella fede. «Avere un atteggiamento amorevole, capacità di ascolto, disponibilità, competenza e preparazione – la formazione è importante – per sapere come far entrare il Catecumeno nel Mistero di Dio e nella rivelazione di Gesù, nella consapevolezza che si rappresenta la Chiesa e la comunità cristiana».