Il direttore della Caritas ambrosiana: «Evidenzia le contraddizioni che le eccessive spinte al profitto possono provocare nelle vite degli esclusi e mostra il welfare come un investimento sulle comunità e sul povero, che deve essere aiutato a non avere più bisogno di aiuto»
di Pino
Nardi
«Ci sono modelli di solidarietà che non funzionano in una situazione complessa come l’attuale. Soprattutto dal punto di vista della carità cristiana non sono credibili, trasparenti, rispetto a quella che deve essere la missione della Chiesa: il messaggio che tutti hanno la dignità di figli di Dio, quindi tutti meritevoli della possibilità di vivere una vita dignitosa senza distinzioni». Luciano Gualzetti, direttore della Caritas ambrosiana, riflette sul Discorso alla città, su inquietudini e speranze che attraversano anche chi è impegnato al servizio degli ultimi.
Delpini parla del realismo della speranza che guarda alla fraternità e smaschera l’illusione dell’individualismo. Come reagisce a questa affermazione?
L’Arcivescovo parte dall’inquietudine e dalla domanda: gli altri che posto hanno? Questo non può però creare sconforto, ma agende di speranza, responsabilità condivise, azioni personali e organizzate per il bene comune e per l’inclusione. Quindi bisogna guardare con realismo questa inquietudine, gli altri che bussano alle mura della città. Come l’esempio di Sant’Ambrogio, che cercava di ribaltare una solidarietà solo tra i romani e quelli che erano già dentro le mura dimenticando gli “esterni”, che si chiudeva in piccoli cerchi. Anche per una città come Milano è conveniente una solidarietà non solo tra chi sta bene, ma che considera gli ultimi, non inclusi nel benessere, come condizione perché sia di tutti. Questo modo di vedere gli altri è una condizione per capire cosa non va del sistema economico, di relazione, del nostro concepire la solidarietà, che a volte purtroppo paga il pegno a un modo di vedere le cose ristretto ad alcuni che lo meritano, discriminando gli altri. Abbiamo assistito a queste forme di solidarietà che poi minano la sicurezza, la convivenza, la pace e l’amicizia all’interno della comunità e addirittura tra i popoli.
L’Arcivescovo mette in guardia dalla generosità del superfluo, dal paternalismo generoso e dall’ostentata filantropia, in particolare di potentati imprenditoriali. Una critica molto forte…
Infatti, alcune modalità di solidarietà sono colpevolizzanti. Come quando lo straniero che arriva da noi diventa un clandestino, quindi colpevole di reato. Gli altri vengono considerati i veri profughi, che meritano il nostro aiuto, questi non li dobbiamo neanche salvare. Arrivando persino a criminalizzare le Ong che sono impegnate a fare quello che dovrebbero fare tutti, comprese le istituzioni, cioè a salvare vite.
Delpini critica il neoliberismo e indica la solidarietà come principio rivoluzionario del sistema economico…
Il sistema economico deve uscire dalla logica predatoria riservata solo ad alcune categorie, a una parte della comunità mondiale, a coloro che detengono i capitali. Senza cadere in un collettivismo altrettanto sterile, la dottrina sociale della Chiesa ha sempre detto che la proprietà privata deve essere subordinata al benessere di tutti. È un principio rivoluzionario, perché fa vedere le contraddizioni che il mercato e le eccessive spinte al profitto possono provocare nelle vite delle persone escluse, relegate in un divario a volte scandaloso nell’accesso alle ricchezze. Quindi è necessario passare a una visione di responsabilità, che porta beneficio ai lavoratori e alle imprese, al rispetto dell’ambiente. Anche a livello istituzionale bisogna entrare nella logica che è intollerabile per un Comune, una Regione, uno Stato avere tra i propri cittadini persone che non vivono con dignità, con un lavoro sufficiente per mantenere la propria famiglia, quindi poter avere quel minimo di condizioni per poi poter dare il proprio contributo al bene comune. È rivoluzionario, perché fa vedere il welfare non solo come un costo, ma come un investimento sulle comunità e sul povero che deve essere aiutato a non avere più bisogno di un aiuto, perché ripartito con il proprio lavoro.
Per la pace percorrere la via della diplomazia e la reazione popolare alla guerra: quale ruolo per i cattolici?
La guerra alle porte ci ha riportato all’ordine del giorno i tanti conflitti già in corso (circa 260 nel mondo). Se è imprescindibile denunciare e indignarsi davanti a un aggressore, che usa certi metodi e cattiverie come costringere l’80% della popolazione civile al gelo e al buio, i credenti però devono avere il coraggio di ribadire che la guerra non è una strada che possa garantire l’uscita dal conflitto con una pace duratura. Questa si basa invece sulla costruzione di condizioni di dialogo e una ricucitura delle ferite aperte prima e durante la guerra, perché non si ripresentino dopo. Come cristiani abbiamo il dovere di non lasciarci irretire da “armi sì, armi no”, da contrapposizioni ideologiche, ma nel dialogo proporre strumenti altrettanto efficaci che possono far vincere la pace.