In occasione della beatificazione di papa Luciani (4 settembre), proponiamo l’articolo dedicato alla sua figura pubblicato sul numero di settembre de «Il Segno»
di Ettore MALNATI e Marco RONCALLI
da «Il Segno» di settembre
Si avvicina la data della beatificazione di Giovanni Paolo I, presieduta da papa Francesco il 4 settembre in piazza San Pietro, mentre si moltiplicano gli appuntamenti che la preparano, in modo particolare fra Canale d’Agordo e Vittorio Veneto, Venezia e Roma, ma non solo. Nel frattempo, impossibile non prendere atto che lo svolgimento della “causa”, apertasi nel 2003 abbia consentito finalmente la necessaria conoscenza della figura di Albino Luciani, grazie all’acquisizione progressiva delle fonti e al loro approfondimento, mentre si sono sgretolate le definizioni riduttive del «Papa del sorriso», e quasi estinti i filoni della pamphlettistica – dal giallo al noir – scaturiti dopo la sua morte.
Appunto quell’addio, inatteso e repentino, forse più raccontato di una vita certamente più interessante, specie se ricostruita non solo nelle sue tappe cronologiche personali, ma lungo i crinali del secolo breve in cui si è dipanata. E, non solo narrata, ma anche interpretata. Almeno fin dove possibile per un uomo che, prima di diventare Papa e guidare la Chiesa per poco più di un mese, ha attraversato larga parte del Novecento, compresi passaggi cruciali, dal fascismo alla seconda guerra mondiale, dalla ricostruzione postbellica agli anni del terrorismo, ecc.
“Convertito” dal Concilio
Dentro questi e altri contesti se ne può ricostruire l’intera parabola umana, certo, ma anche spirituale, insieme alla forte personalità plasmata da una fede appresa già durante l’infanzia e resa sempre più robusta. Abbracciare la sua biografia significa oggi poterne ripercorrere gli anni “bellunesi” vissuti da lui in Seminario – nei fatti la sua “seconda famiglia”, come studente, poi come docente e vicerettore -, poi come pastore e al contempo uomo di Curia, collaboratore di più vescovi. E significa doversi interrogare su lui stesso Vescovo per 11 anni a Vittorio Veneto, fermandosi sul tempo che lo vide padre conciliare al Vaticano II, quella scuola del Concilio dalla quale uscì “convertito”.
Comunione e sinodalità
Cogliendo poi negli 8 anni come patriarca a Venezia, in piena sintonia con Paolo VI – che lo volle cardinale e del quale fu successore dopo un Conclave-lampo – il travaglio di una Chiesa alle prese con manifestazioni sempre più accese del dissenso e accelerazioni sempre più rapide nella società. C’è già quanto basta per parlare di una figura complessa – che non coincide con quella della vulgata corrente, o delle rivisitazioni agiografiche, delle caselle “conservatore” o “progressista” – capace di realismo e misericordia, come dimostrano le sue posizioni sulla contraccezione, le unioni di fatto, la libertà religiosa, ma pure l’attenzione al linguaggio e alla comunicazione. Cifre tutt’e due della sua catechesi e della sua umiltà che ne contrassegnarono lo stile anche sulla cattedra petrina. Stile di un pontificato che innanzitutto – da testimone e da maestro – palesò un modo autentico di vivere nella Chiesa e per la Chiesa, chiamata a stare accanto a tutti condividendo problemi e difficoltà. Cosa poi sarebbe riuscito a fare davvero non è dato saperlo, ma non vi sono dubbi sul suo desiderio di comunione e di sinodalità. Senza dimenticare l’impegno per i poveri e per la pace.
Si farebbe un torto a Luciani mettendo però in secondo piano dietro questi aspetti l’uomo del Libro e del Calice, della sintesi tra nova et vetera, dello studio celato dietro l’improvvisazione, il Papa che – il giorno in cui prese possesso della cattedrale del Laterano, 23 settembre 1978, prima e ultima uscita pubblica dal Vaticano – fermatasi la macchina sotto il Campidoglio fra gente acclamante, sussurrò al Segretario di Stato: «Come avrei preferito a tutto questo un’ora di adorazione».
Le sue tracce in Diocesi
Non è tutto. Perché anche nell’Arcidiocesi ambrosiana Luciani ha disseminato tracce di diversi passaggi e, forse, anche questa beatificazione potrà essere spunto per ricordarli. Visite fatte quand’era Vescovo di Vittorio Veneto, per esempio a Treviglio nel febbraio del 1969, invitato a predicare la novena e a celebrare il pontificale per la festa della Madonna delle lacrime. O da Patriarca di Venezia, per esempio al San Fedele, quando il 19 maggio 1972 tenne una conferenza su libertà e autorità, ricordando in quell’occasione la dimensione comunitaria, prima ancora che gerarchica, della Chiesa. Anche l’ultima domenica del luglio del 1978 troviamo il cardinale Luciani nell’Arcidiocesi ambrosiana, a Premana, per il terzo centenario della traslazione del corpo di Sant’Ilario dalla Laguna al borgo lecchese.
«Come il facchino di Milano…»
Ma c’è un fermo immagine con il quale chiudiamo queste righe, non senza aver ricordato la telefonata serale di mezz’ora con l’Arcivescovo di Milano, cardinale Colombo, l’ultima della sua vita. Una scena raccontata più volte, con diverse varianti, a ricordare cosa gli era capitato di vedere in una sosta alla Stazione ferroviaria di Milano: l’immagine di un facchino che – bisognoso di riposo – riusciva a dormire, sdraiato lungo una pensilina nel fracasso di treni cigolanti, fischi, rischiami degli altoparlanti, ecc. Disse Luciani: «Lo presi come un monito per me: io devo ogni tanto ritagliare uno spazio di silenzio […] non per dormire, ma per parlare con il mio Signore. Dicano quello che vogliono, faccio come il facchino di Milano, perché io devo ascoltare te, Signore!».