Nella domenica in cui la Diocesi celebra la Giornata missionaria e nella quale si conclude anche il Sinodo dei vescovi, la testimonianza di Franco Monaco sui fermenti degli anni Sessanta e Settanta e le prospettive odierne: «Allora puntavamo a cambiare il mondo, volevamo essere liberi e protagonisti. Ora siamo in debito verso le nuove generazioni, che hanno diritto a una Chiesa che indichi loro mete alte e impegnative»

di Claudio URBANO

Franco Monaco
Franco Monaco

Con un’espressione che forse risultava più efficace qualche anno fa, il curriculum di Franco Monaco si potrebbe facilmente definire quello di un laico impegnato. Classe 1951, giornalista, è stato attivo nell’associazionismo, dall’Azione Cattolica ambrosiana a Città dell’Uomo, associazione fondata da Giuseppe Lazzati; ha proseguito con l’impegno politico, deputato per due mandati e quindi in Senato fino alla scorsa legislatura, anche con scelte in contrasto rispetto a quelle del proprio partito. A lui abbiamo chiesto di raccontare quali motivazioni spingevano i giovani dei primi anni Settanta, durante i quali – racconta – «abbiamo coltivato il sogno di cambiare il mondo». Sono gli stessi anni in cui la Chiesa ambrosiana lanciava la Veglia missionaria, pensata – allora come oggi – per aprire ai giovani una prospettiva universale.

Quali erano le esigenze e motivazioni di voi giovani, lo spirito che vi animava nell’impegno ecclesiale?
La mia è stata una formazione cattolica tradizionale: oratorio, parrocchia, Azione Cattolica. In provincia, non nella grande città. La nostra adolescenza è però anche coincisa con la distensione internazionale, con le speranze dischiuse da papa Giovanni XXIII e da John Kennedy, dalla primavera del Concilio, a cui poi seguì il Sessantotto. Il nostro fu dunque un tempo di apertura universalistica e di fiducia in una Chiesa che, aggiornandosi e riformandosi, potesse concorrere positivamente a cambiare il mondo.

Qual era lo spirito con cui la Chiesa “istituzionale” si rivolgeva ai giovani, e quale quello con cui voi, giovani credenti, vi rivolgevate ai vostri coetanei? Quali erano le istanze più calde?
La Chiesa – il cui volto concreto erano oratori, parrocchie e associazionismo, e ancor più specificamente sacerdoti e laici nostri educatori – ci proponeva un percorso di educazione a una fede adulta e alla vita di comunità. Un percorso esigente, ma anche accessibile a tutti, e che instillava in noi uno spirito di servizio e una concezione della libertà intesa come responsabilità e partecipazione. La domanda di quella generazione (ma a suo modo dei giovani di sempre) era appunto domanda di libertà e di protagonismo. Dunque, compito nostro era vivere e proporre il cristianesimo come esperienza di vita piena e di libertà.

Come vede le generazioni di giovani di oggi rispetto a quella dei suoi anni?
Non conosco abbastanza i giovani di oggi e preferisco evitare generalizzazioni. Certo, i giovani risentono della condizione materiale e dello spirito del tempo, dove c’è incertezza sul futuro e dove mancano punti di riferimento e modelli cui ispirarsi. So solo che grandi e imperdonabili sono le responsabilità, le mancanze della nostra generazione verso le nuove. Non mi riferisco solo a lavoro, previdenza, ambiente. Ma alle ragioni del vivere e del vivere insieme. Ragioni delle quali, noi che ci siamo assunti la responsabilità di “mettere al mondo” i giovani, dovremmo saper rendere conto.

Quali indicazioni o sostegni servirebbero ai giovani, da parte del mondo adulto e della Chiesa, per essere protagonisti?
Mi limito a indicare alcuni “diritti” dei giovani, giustamente diffidenti della proclamazione dei grandi ideali che non siano testimoniati e vissuti nel quotidiano e nei rapporti brevi. I giovani hanno diritto a una Chiesa che non sia sentenziosa e legalistica, ma neppure compiacente e “compagnona”, una Chiesa che indichi loro mete alte e impegnative; e hanno diritto a una politica dotata di visione e responsabile verso il futuro, l’opposto dell’attuale “presentismo”, dell’ossessione per il facile consenso; complessivamente, servono adulti che siano adulti, testimoni ed educatori, non eterni adolescenti.

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