Nella chiesa di San Carlo monsignor Delpini ha predicato nella prima delle tre serate organizzate in tutte le Zone pastorali: «Il Signore vede in ciascuno di noi qualcosa di amabile. Fatelo anche voi con gli altri»
di Annamaria
BRACCINI
Un accompagnamento comunitario della fede, un’ondata di grazia che feconda la vita, aprendo il cuore all’incontro con il Signore. Gli Esercizi spirituali proposti dalla Diocesi ai giovani in Avvento e in Quaresima sono questo, e così vanno vissuti nella concretezza dei gesti, nella riflessione, nella preghiera e nello stile di comportamento quotidiano. Inizia l’Avvento ambrosiano e, anche quest’anno, nelle 7 Zone pastorali della Diocesi, si svolgono le tre serate di Esercizi. Per l’apertura nella Zona VII, nella chiesa di San Carlo a Sesto San Giovanni, c’è un predicatore d’eccezione: l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini
I ragazzi si affollano accompagnati da sacerdoti ed educatori o arrivando singolarmente; quando il Rito della Luce illumina le sobrie linee moderne della chiesa, ogni panca è occupata. Accanto all’Arcivescovo c’è il Vicario di Zona monsignor Piero Cresseri; non mancano il responsabile del Servizio Giovani diocesano don Massimo Pirovano, don Roberto Spreafico (responsabile di Zona per la Pastorale giovanile), don Leone Nuzzolese e don Roberto Davanzo, rispettivamente Decano e Prevosto di Sesto, e don Emanuele Beretta, parroco di San Carlo.
Si ascolta la Parola di Dio leggendo parte del brano del I capitolo di Giovanni, da cui è tratto il titolo della proposta di Avvento 2017, «Andarono dunque e videro».
La meditazione dell’Arcivescovo
Dall’invito a considerare gli Esercizi non come «qualche minuto trascorso insieme, ma come una pratica che deve caratterizzare le giornate, da vivere nel raccoglimento e nell’attenzione a ciò che viene indicato in queste sere», prende avvio la meditazione di monsignor Delpini, che individua tre specifiche modalità.
In primis, l’esercizio spirituale delle domande, la cui scelta nasce dalla pagina evangelica appena proclamata, in cui sono molti i quesiti posti a Gesù. «Cosa significa fare domande? La domanda può essere aprire una porta alla risposta, perché si ha bisogno di una luce e di un’illuminazione», ma può essere anche il contrario, una sorta di pregiudizio, sottintendendo delle obiezioni al ruolo dell’interlocutore: «È qui che la domanda si fa porta chiusa e, richiamando il rischio di non avere vere domande da porre, diviene quasi l’ottusità di una mente inerte e opaca. Questa è una malattia dello spirito come lo è la curiosità, dove la domanda è quella di chi si interessa di tutto, chiede ogni cosa, ma senza mai un coinvolgimento personale, mentre l’esercizio spirituale della domanda viene dalla sete, dalla persuasione, dal desiderio, dalla speranza che l’altro risponda».
Il primo lavoro da compiere è, quindi, sulla propria coscienza, capendo in quale inquietudine si viva, «se in quella malata del non essere mai contento e della sfiducia in tutto o nell’inquietudine come Grazia, perché si ha sete della luce, dell’amore, del senso della vita, per non lasciare che la giovinezza sia una specie di parcheggio, senza avere voglia di percorre le strade dell’esistenza». Insomma, come dice ancora Delpini parafrasando gli inglesi, «finché siamo inquieti possiamo stare tranquilli».
Poi, il secondo esercizio, che parte dal riferimento alla definizione di Gesù, identificato da Giovanni Battista nell’agnello pasquale: «Agnello da immolare nella notte di Pasqua, dunque, un uomo predisposto al sacrificio che ha la missione di togliere il peccato». Un peccato «da cui è possibile liberarsi, che non è il senso di colpa che, talvolta, grava sull’intera vita». Anche in questo caso, si tratta di «una malattia», scandisce. «Gesù è venuto per riconciliarci con Dio, restituendoci alla libertà autentica – non a quella astratta del fare ciò che si vuole senza saper scegliere tra bene e male – e portando a compimento la liberazione che ci fa rientrare nella casa del Padre». L’abbraccio dove si ritrova la libertà di fare il bene, «togliendo la pigrizia, la schiavitù dei capricci, il senso di inferiorità, l’infelicità perenne».
Infine, come terzo step, l’esercizio spirituale della autentica conoscenza. «Domandiamoci se conosciamo il Signore secondo lo Spirito o solo per un’emozione, perché ha dato il buon esempio o perché parlava come nessun altro ha mai parlato». Come a dire che il Signore non è venuto per essere un terapeuta, il che non esaurisce, evidentemente, il suo Mistero, ma «per renderci partecipi del suo essere Figlio che ci fa diventare, a nostra volta, figli». Evidente che un tale tipo di conoscenza la si raggiunga solo comprendendo il rapporto che il Risorto ha con Dio e con lo Spirito. Eppure, l’esercizio di tale consapevolezza – suggerisce l’Arcivescovo – vale anche «per la nostra conoscenza reciproca, nella quale si sviluppano antipatie, pregiudizi, inimicizie perché spesso non riusciamo a intuire il rapporto che gli altri hanno con Dio e perché non guardiamo le persone con lo sguardo con cui il Signore guarda vedendo, in ciascuno di noi, qualcosa di amabile».
E questa è proprio l’Actio, il compito finale, che il Vescovo lascia ai ragazzi dopo il momento della confessione di molti di loro con i sacerdoti (tra cui anche Delpini stesso), l’Adorazione eucaristica, il silenzio di riflessione personale e la preghiera comune per il Sinodo dei Giovani 2018: «Vi chiedo di scrivere su un foglietto l’elenco delle persone più difficili da amare o da stimare. Andate davanti al Signore chiedendo di vederle come le vede Lui».
Il kaire che, ormai come una tradizione, saluta informalmente e affettuosamente l’Arcivescovo, suggella quella che un ragazzo chiama a mezza voce, «proprio una gran bella serata».