Presso l’Università degli studi e online, si è svolto il dialogo tra l’Arcivescovo e il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib. A tema la figura di Giobbe
di Annamaria
Braccini
Il dramma di un uomo che perde tutto millenni fa – Giobbe – e che è l’emblema della sofferenza; uomo che si rivolge a Dio, ma che sa anche tacere. Il dramma di oggi, con una pandemia che suscita interrogativi sulle nostre fragilità, sulle paure, sul dolore e che continua, spesso, a chiedere ragione di ciò che accade a quello stesso Dio. Ma “Come può un uomo avere ragione dinnanzi a Dio?”, per usare un’espressione del Libro, appunto di Giobbe, che ha fatto da titolo all’approfondito scambio teologico-spirituale a due voci, tra l’Arcivescovo e il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib. Svoltosi in presenza per i pochi possibili, presso l’Università degli Studi, e per molti, in collegamento zoom. Dopo il saluto del responsabile della Sezione Università e cappellano della “Statale”, don Marco Cianci, il benvenuto è portato dal magnifico rettore dell’Ateneo, Elio Franzini che, nella sua veste di filosofo, osserva: «Giobbe ci parla del grande problema della teodicea, del legame misterioso tra uomo e Dio e del tema fondamentale, nel rapporto con la trascendenza, che è la questione della libertà. Nelle nostre Università italiane laiche di Stato manca l’insegnamento della teologia, ma dovrebbe esservi, come accade negli Atenei tedeschi, perché ci confrontiamo troppo poco con la sapienza della Bibbia».
L’intervento dell’Arcivescovo
«“Giobbe” non è un libro di poesia, non parla di un ebreo, non si può rinchiuderlo in una categoria, perché riguarda tutta l’umanità e la sua inevitabile domanda di fronte al soffrire», chiarisce subito il vescovo Mario. Ma – avverte – se Giobbe pare dapprima «ossessionato dal chiedere ragione, questo non è detto che sia sempre un atteggiamento comune o consentito, perché ci sono dei contesti in cui farsi domande è proibito o inutile, ridicolo, Tuttavia, noi, leggendo “Giobbe”, sentiamo simpatia per un uomo che pone domande che non nascono dalla condizione propizia, e che sono una protesta, una reazione che cerca, un chiedere non soltanto per sapere in modo teorico, ma per cercare una salvezza, un rimedio ».
Ma contro chi protesta l’uomo ferito? Ovviamente, in primis, verso Dio, specie oggi. «Nella sensibilità contemporanea viene spontaneo ritenere che la sofferenza sia una buona ragione per protestare contro Dio». Curiosamente, dove non ci si ricorda mai di Dio, quando avviene che il dramma bussi alla porta di casa, la domanda è sempre “Perché Dio?”. E forse qualcosa di positivo c’è in questo, perché si coglie «una specie di spontanea persuasione che un interlocutore esista. Quel Dio che entra così poco nella vita quotidiana, in verità, c’entra».
E, poi, ci sono gli amici con le loro spiegazioni sulla sofferenza di Giobbe come una punizione o una specie di educazione, insomma, «con un catechismo da salotto, una teologia tradizionale».
Dio, infine, interviene per zittire i luoghi comuni, ma la risposta a Giobbe «è inquietante», perché in verità non offre risposte, piuttosto chiede un affidamento, una sorta di resa all’enigma della vita perché solo Dio sa e non si sente in dovere di rispondere al suo servo», anche se la prova, a un certo punto, finisce.
«L’impressione che ne ricavo – riflette l’Arcivescovo – è di un Libro biblico nel quale il popolo di Israele, il popolo di Dio, non trova un senso al dolore, ma una sorta di risarcimento perché quello che è perso viene restituito e la situazione felice viene ricreata. Certo, è un’opera di altissima poesia, ma lascia l’idea che il risarcimento non sia adeguato».
Il pensiero va alla Shoah. «Per il dramma che ha messo alla prova la fede di molti, non vi è stata una salvezza, un lieto fine. Di fronte allo smarrimento delle risposte non date, allora, cosa pensare?
«Io credo che Dio – sottolinea – abbia invece risposto, non nella logica del lieto fine, ma in quella dell’incarnazione e della condivisione del dolore. La risposta di Dio, che dona il suo stesso Spirito, non è una consolazione, ma una comunione».
La riflessione del rabbino Arbib
«L’inizio del Libro è immagine straordinaria della sofferenza umana, di chi perde tutto per gradi, ma in pochi minuti. La reazione è il silenzio per una settimana sia per Giobbe che per gli amici. È la descrizione della vita sospesa, dell’impossibilità di esprimere parole. Infatti, una delle caratteristiche, dopo la Shoah, è stato il silenzio dei sopravvissuti. Le testimonianze, tranne alcune poche eccezioni come Primo Levi, sono un fenomeno recente».
Così il rabbino capo di Milano avvia il suo intervento, dalle parole (citate poco prima anche dall’Arcivescovo) che Dio di rivolge agli amici di Giobbe, dicendo: “Voi non avete parlato di me in maniera giusta”. Giobbe, da parte sua, tornato a parlare, dice che non c’è giustizia, che il mondo è in mano ai malvagi, eppure parla in maniera giusta, anche se molte sono le interpretazioni dei due atteggiamenti suggerite da rabbini e sapienti, da Maimonide a RaMCHal.
«Si pongono così i problemi della teodicea, del ruolo del giusto e del malvagio. Il segreto del Libro è nella preghiera finale di Giobbe per gli amici»
Il riferimento è a Joseph Soloveithik e al suo volume “Ascolta: il mio amato bussa”, scritto poco dopo la Shoah, nel quale descrive due tipologie di persone, l’uomo della sorte – «a cui capitano le cose della vita e che si pone domande sostanzialmente inutili sulla sofferenza, perché la risposta è impossibile» – e l’uomo della missione «che ha un obiettivo da raggiungere e che, quindi, si chiede anche come ciò che gli sta succedendo incida sul compito che deve portare a termine».
«La domanda qui è che cosa Dio sta dicendo a ciascuno di noi: è l’interrogativo che, in fondo, ci siamo posti tutti quest’anno. Esiste una sorta di Giobbe eterno che torna sempre; infatti, il messaggio di Dio a Giobbe vale per tutti, quando dice: “Tu sei il giusto, aiuti il prossimo, ma il problema è la mancanza di simpatia, che oggi potremmo definire empatia. Pregare veramente significa mettere tutto se stesso, comprendendo, al contempo, tutti. Infatti, la preghiera ebraica è sempre al plurale».
Da qui, l’auspicio che, nel nodo tra sofferenza e speranza, la prima possa diventare occasione per migliorare. «Uno dei drammi peggiori di ciò che stiamo vivendo è pensare solo a noi stessi, rischiando, così, di non essere più umani. Bisogna uscire da noi, sentendo la sofferenza degli altri. Il vero happy end è la nostra crescita. La pandemia ha toccato il nucleo essenziale della missione», scandisce rav Arbib portando la sua esperienza personale. «La mia missione mi ha salvato perché ho fatto lezione più volte al giorno, ho imparato io personalmente – sarei impazzito sennò – e ho fatto qualcosa di utile per gli altri. Ho imparato che non riusciamo a vivere senza il prossimo».
Aggiunge il vescovo Mario: «In questa tribolazione planetaria non avverto la radicale impotenza della mia capacità di svolgere la missione. Mi lascio condurre con docilità più arresa, per seminare frammenti di luce, scintille. Occuparsi degli altri è un modo di farlo anche per se stessi. Ognuno deve chiedersi cosa sta ci dicendo questa situazione e credo che molti di noi rispondano con una capacità di compassione, intelligenza e lungimiranza, prima non riconosciute».