Il 2 luglio a Roma saranno ordinati da monsignor Massimo Camisasca assieme a sette nuovi diaconi. Filippo Pellini ricoprirà l’incarico di vicerettore della casa di formazione a Roma
Sabato 2 luglio, alle 15.30, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, ordinerà tre sacerdoti della Fraternità San Carlo.
Tra loro, Filippo Pellini, 31 anni, è originario di Milano. Dopo l’ordinazione, ricoprirà l’incarico di vicerettore della casa di formazione a Roma.
Questi gli altri ordinandi: Dennis Bensiek, 31 anni, di Colonia (Germania), dopo l’ordinazione sarà a Torino, come viceparroco di Santa Giulia; Gabriele Saccani, 28 anni, di Trento, sarà viceparroco di Maria Inmaculada, a Città del Messico
Nella stessa celebrazione saranno ordinati sette diaconi: Daniele Bonanni, Luca De Chiara, Giorgio Ghigo, Giacomo Landoni, Andrew Lee, Andreas Scholz, Philip Stokman.
Qui sotto, Filippo Pellini racconta la sua vocazione
A volte serve un All-in
Quand’ero piccolo, mio nonno mi ha insegnato a giocare a poker. Anche se trovava sempre il modo di finire la partita facendomi vincere mille lire, probabilmente per un bambino non era il passatempo più edificante. Eppure, attraverso questo gioco il nonno mi ha insegnato una cosa importante: se non vuoi finire la partita a tasche vuote, ci sono dei momenti in cui la cosa migliore da fare è scommettere tutto, anche quando mette i brividi. Se hai le carte giuste, devi prenderti un rischio da cui non si torna indietro. In gergo si chiama All-in.
Quando sette anni fa sono sceso a Roma per chiedere di entrare in Seminario, è stato come un grande All-in. Lo stesso, in maniera veramente definitiva, si può dire dell’ordinazione diaconale che ho ricevuto l’estate scorsa. Da un lato, la vertigine di chi mette tutto sul piatto, dall’altro, la certezza di chi sa che non esistono carte migliori di Cristo che ti dice: «Seguimi».
Non è però una certezza nata all’improvviso: è il frutto di un cammino durato tutta la mia giovinezza. Dopo la Cresima, infatti, mi ero allontanato dalla parrocchia e dalla fede vissuta, come capita a molti ragazzi. Le cose sono cambiate quando una sera, su invito di un paio di compagni di scuola, mi sono ritrovato in uno scantinato di Abbiategrasso, una cittadina fuori Milano. Era quello il luogo di ritrovo di un numeroso e variegato gruppo di amici le cui serate erano fatte di grandi cantate, grandi discorsi e, soprattutto, un grande desiderio di vivere intensamente. In quel luogo, sconosciuto agli occhi del mondo e improbabile in se stesso, era nata un’amicizia che aveva un che di eccezionale. Non avrei saputo darle un nome – certamente non quello di Cristo -, ma già percepivo di avere incontrato quel “qualcosa” che dava il gusto vero alla vita e su cui valeva la pena puntare tutto.
Era però un’intuizione ancora fragile e vaga. Vivere quelle serate, non mi impediva poi di passarne altre con compagnie di tutt’altro genere, la cui ragione per divertirsi, piuttosto che vivere intensamente, era evadere la vita. Ci ho messo tutti gli anni delle superiori per accorgermi di dove fosse il valore e decidermi per esso. Durante quel periodo di lotta interiore, la mia ragazza e alcuni amici veri sono stati gli argini che mi hanno impedito di uscire di strada.
È all’università, studiando Design alla sede della Bovisa del Politecnico di Milano, che ho preso la decisione definitiva e matura di appartenere al movimento di Comunione e liberazione. Lì ho incontrato altri amici e volti diversi, eppure nel condividere lo studio e la vita quotidiana, l’esperienza di pienezza e intensità era sempre la stessa. Prendere questa decisione ha significato per me riconoscere chi sono e a chi appartengo. È stata una importante scommessa, un vero passo di liberazione. Avevo vagliato ciò che avevo vissuto e trattenuto ciò che aveva valore, per dirla con San Paolo. Da lì in poi, ogni anno è stato più bello del precedente.
Per la specialistica, sono andato a studiare a Losanna, in Svizzera. Verso la fine di quei due anni, in cui di nuovo non sono mancati rapporti importanti e luminosi, sono accaduti due fatti che hanno segnato il mio cammino futuro. Il primo è stato un pellegrinaggio a Medjugorje, accettato più che altro per fare compagnia a un amico. Anche se in quel momento non avevo ancora pensato all’opzione del sacerdozio, è lì che sono stati messi i semi della mia chiamata: la scoperta della possibilità di un rapporto intimo e personale con Dio, il desiderio radicale di viverlo nella quotidianità. A quel punto non avevo più paura di riconoscere che quel “qualcosa” che già mi aveva conquistato nello scantinato di Abbiategrasso si chiama Cristo, si chiama Chiesa.
Il secondo fatto è stato l’incontro con Anas, sacerdote della Fraternità San Carlo arrivato da qualche mese a Milano: un padre che mi ha accompagnato nelle piccole e grandi questioni della vita, che mi ha aiutato a orientarmi nel labirinto di sentimenti, passioni e giudizi. È stato il primo a cui ho parlato della domanda che da qualche mese ritornava: se sono felice solo quando vivo ricordando che Cristo è tutto, perché non dargli veramente tutto? Un All-in da vertigini, sostenuto dalla testimonianza di tanti amici e dalla compagnia di un padre. Per grazia di Dio, ho avuto entrambi.