Sabato 3 agosto a Barzio il tradizionale convegno su temi che riguardano le relazioni familiari. Quest’anno si parlerà di fraternità a diversi livelli, dal punto di vista psicologico e prendendo spunto anche dalla Bibbia. Parla Rossella Semplici
di Luisa
Bove
Sono attesi un centinaio di partecipanti (anche villeggianti) al tradizionale convegno sulla famiglia, intitolato quest’anno «Amore di fratelli… e di sorelle», che si terrà il 3 agosto a Barzio. Tra i relatori, Rossella Semplici, psicologa clinica, che abbiamo intervistato.
La relazione tra fratelli e sorelle è un tema originale e di grande attualità…
Sì, lo abbiamo scelto per diversi motivi. Anzitutto perché in 12 anni non era mai stata affrontata questa dinamica, ci sono studi e ricerche, ma non tanti come nel rapporto tra genitori e figli, piuttosto che nonni. E poi perché in una situazione di disgregazione sociale (sia a livello nazionale sia internazionale) è importante ripartire dalla fraternità che si vive in famiglia per sperimentare una fraternità sempre più ampia, legata alla comunità, al luogo in cui si vive, fino ad arrivare alla fraternità universale di cui parla anche papa Francesco.
Quali sono gli aspetti o gli elementi che entrano in gioco nel rapporto fraterno?
All’inizio, soprattutto quando ci sono pochi anni di differenza, si sente il nuovo arrivato (il fratello) come un intruso, come qualcuno che si è intrufolato nella famiglia e nei rapporti famigliari, per cui nascono gelosia, aggressività, regressione. Da questo punto di vista la psicologia mette in evidenza che se lo sviluppo evolutivo si ferma a questo stadio, anche i rapporti che si instaurano con gli altri sono di sospettosità e sfruttamento, non di serenità e fiducia.
E nelle altre fasi?
Nel momento successivo si è considerati uguali, quindi c’è un rapporto simbiotico, che ricorda quello iniziale tra mamma e neonato, per cui «io sono come te», anzi, «tu sei come me», «tu provi i miei stessi sentimenti», «tu vuoi quello che voglio io». C’è una fusionalità che non lascia spazio alla diversità. Lo sviluppo è fermo quando le persone si relazionano con partner, figli, amici in modo simbiotico, per cui diventa difficile una relazione alla pari, che è quella in cui l’altro viene riconosciuto come diverso da me, con propri desideri, necessità, emozioni e azioni. Questo permetterebbe l’inizio di un rapporto paritario in cui la diversità è positiva e apre alla reciprocità.
Nelle relazioni, anche a distanza di anni, possono riemergere problemi irrisolti?
Purtroppo sì. Noi psicologi clinici a volte affrontiamo situazioni di sofferenza tenute sotto controllo finché i genitori erano viventi, ma poi riesplodono con grande dolore di uno o di entrambi, a seconda delle dinamiche. Il ruolo dei genitori, fin dall’inizio, è quello di permettere che i figli si confrontino dando regole abbastanza precise e lasciando che a volte si sbrighino da soli nelle loro conflittualità. Ci sono persone che chiedono il supporto psicologico proprio per la litigiosità, spesso legata a questioni di eredità o che emerge quando i genitori non sono più autosufficienti. C’è chi dice: «Io sono stato il preferito», oppure può esserci anche una prepotenza nel prendersi cura del genitore: «Ci penso io», «Io sono più brava», e poi c’è chi delega: «Non hai fatto niente finora, adesso ti arrangi».
Quanto la relazione fraterna è segnata dal rapporto con i genitori?
Molto. Il rapporto che i genitori stabiliscono con i figli è fondamentale. Se ogni figlio è riconosciuto e valorizzato per quello che è, allora nessuno si sente migliore o peggiore dell’altro, privilegiato oppure no, e questa “uguaglianza” la sperimentano. Poi ci sono dinamiche per cui l’uno riconosce all’altro determinate qualità (il secondo spesso è più facilitato nelle relazioni sociali e nel prendere iniziative). Nel rapporto coi figli gioca molto anche come il genitore è stato fratello o sorella: le tracce di questo rapporto noi ce le portiamo sempre dentro».