L’abbraccio dei fratelli cristiani tra il Papa e il Patriarca. Nella dichiarazione comune la preoccupazione per i cristiani perseguitati, l'appello perché «si faccia ogni sforzo possibile» per porre fine alla violenza, ma anche famiglia, vita ed eutanasia

di Maria Chiara BIAGIONI

Francesco e Kirill

Un abbraccio e tre baci, poi un lungo sguardo fisso negli occhi. Papa Francesco e il Patriarca Kirill di Mosca si sono incontrati in una sala dell’aeroporto internazionale de L’Avana. Le telecamere riprendono in diretta planetaria un incontro che butta giù un millennio di lontananza. Poi quello scambio di battute intercettate dai microfoni accessi: «Hermano, hermano, fratello, fratello, somos hermanos, finalmente!», dice Papa Francesco. «Ora le cose sono più facili», ha ribattuto Kirill. «È chiaro che quello che sta succedendo oggi è la volontà di Dio», ha replicato Francesco.

Le luci dei flash e delle telecamere si spengono, le porte si chiudono e i due primati rimangono in colloquio privato per due ore in una saletta preparata appositamente. Quando escono, ad attenderli, tutti in piedi, ci sono le delegazioni della Santa Sede con in prima fila il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, e il metropolita Hilarion, capo del Dipartimento del Patriarca per le relazioni esterne, che hanno lavorato assiduamente e dietro le quinte per la realizzazione dell’incontro. E davanti a loro, Kirill e Francesco firmano una Dichiarazione comune.

«Abbiamo svolto una discussione fraterna di due ore – ha detto il patriarca Kirill prendendo per primo la parola -. È stata una discussione piena di contenuti che ci ha dato la possibilità di comprendere e sentire la posizione dell’uno e dell’altro. I risultati di questo colloquio permettono di dire che le nostre due Chiese possono lavorare attivamente», «insieme» e «con piena responsabilità» affinché «non ci sia più la guerra, affinché ovunque la vita umana sia rispettata e perché si rafforzino le fondamenta della morale della famiglia e della persona».

Papa Francesco nel suo breve intervento torna a ribadire le fondamenta del suo ecumenismo: «Abbiamo parlato come fratelli. Abbiamo lo stesso battesimo. Siamo vescovi». Anche il Papa parla di una discussione franca e «senza mezze parole» e prima di lasciare L’Avana, ha rivolto un pensiero al popolo cubano e al suo presidente Raul Castro. «Se continua così – ha detto -, Cuba sarà la capitale dell’unità».

Dieci pagine in 30 paragrafi

La Dichiarazione firmata da papa Francesco e dal patriarca Kirill è un testo corposo che affronta molte questioni, tutte attuali, tutte urgenti. Al cuore della Dichiarazione c’è un accorato Appello alla comunità internazionale affinché «faccia ogni sforzo possibile» per porre fine alla violenza e al terrorismo e contribuisca attraverso il dialogo, l’attivazione di canali umanitari e il tavolo dei negoziati a un rapido ristabilimento della pace civile in Siria e Iraq. Francesco e Kirill hanno nel loro cuore la sorte dei cristiani perseguitati e uniscono le loro voci in nome di quell’ecumenismo del sangue dove il martirio non fa differenza.

All’Europa i vescovi delle due Chiese di Roma e di Mosca lanciano l’appello a rimanere «fedele alle sue radici cristiane» ed esprimono la loro preoccupazione quando «alcune forze politiche, guidate dall’ideologia di un secolarismo tante volte assai aggressivo, cercano di spingere» i cristiani «ai margini della vita pubblica». Nella Dichiarazione si parla della famiglia fondata sul matrimonio e sull’amore «di un uomo e di una donna» e si esprime rammarico per l’emergere di altre forme di convivenza «poste allo stesso livello di questa unione». Sono temi – quelli etici e bioetici – che trovano le due Chiese sulla stessa lunghezza d’onda.

Più delicata invece è la questione dell’«uniatismo», legata alla Chiesa greco-cattolica e all’Ucraina. Questione che viene affrontata nella Dichiarazione lanciando anche in questo caso un appello coraggioso alle proprie comunità di riferimento: «Ortodossi e greco-cattolici hanno bisogno di riconciliarsi e di trovare forme di convivenza reciprocamente accettabili».

«Dalla nostra capacità di dare insieme testimonianza dello Spirito di verità in questi tempi difficili dipende in gran parte il futuro dell’umanità». È questa responsabilità e questa consapevolezza ad aver spinto i due leader a mettere da parte secoli di incomprensioni e pregiudizi per un abbraccio destinato ad aprire una pagina nuova non solo nella storia del cammino delle Chiese verso la piena e visibile unità, ma anche per la storia dell’umanità, che in tempi di guerre dichiarate in nome di Dio ha bisogno di segni di speranza. Segni che dicono che i processi di riconciliazione, sebbene lunghi e difficili, sono sempre possibili.

 

 

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