L'ultima campanella è risuonata a segnare la fine delle lezioni, al termine di un anno che, come sempre, porta con sé un complesso di esperienze di vita non sintetizzabili in voti, punteggi e giudizi
di don Fabio
LANDI
Responsabile della Pastorale scolastica diocesana
La fine della scuola è uno spartiacque nel calendario di tanti ragazzi e famiglie. Cambia i ritmi quotidiani e gli impegni, spesso anche i luoghi frequentati, ma soprattutto i paesaggi interiori: gli obiettivi, le preoccupazioni, persino gli affetti, perché sono altre le persone che si incontrano ogni giorno. L’ultima campanella segna una di quelle cesure che scandiscono la nostra vita e attraverso le quali contiamo gli anni che passano. Per chi va a scuola dire la propria età o la classe frequentata non fa differenza: «Sono in terza elementare», «Ho finito il primo anno di liceo», «Devo fare la maturità», sono espressioni che nel nostro immaginario non definiscono innanzitutto un livello di studi, ma un complesso di esperienze e un passaggio a volte difficile, a volte entusiasmante, ma sempre indimenticabile della nostra crescita personale.
Una bella poesia di Wisława Szymborska, scrittrice polacca e premio Nobel per la letteratura nel 1996, descrive con pungente sarcasmo le operazioni necessarie per scrivere un curriculum: «Cambiare paesaggi in indirizzi / e malcerti ricordi in date fisse. / Di tutti gli amori basta quello coniugale, / e dei bambini solo quelli nati». La lista prosegue raccomandando una concisione brutale e l’inserimento di dati precisi quanto asettici. Le voci del curriculum trascurano quello che più conta nella nostra identità, i sentimenti più sacri e profondi, tutto ciò che davvero ha riempito il nostro tempo e cambiato il nostro sguardo: «Sorvola su cani, gatti e uccelli, / cianfrusaglie del passato, amici e sogni. / Meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto».
Nel curriculum, si sa, finiscono anche i nostri anni di scuola. Sono riassunti in pochi numeri, il titolo di studio, l’indicazione dell’istituto: note laconiche che non rendono giustizia a quanto abbiamo vissuto e che, come suggerisce ancora la Szymborska, impietosamente scompaiono presto o tardi nelle «macchine che tritano la carta».
Eppure il grido degli studenti che l’ultimo giorno escono in massa dai cancelli delle nostre scuole, festeggiano per strada, si salutano, si abbracciano e non di rado si commuovono dandosi appuntamento a settembre, ci ricorda che cos’è davvero la scuola. E ogni pretesa di ridurla al mero risultato della pagella, dei voti ottenuti, del pezzo di carta guadagnato perde l’essenziale. Tenerlo a mente ogni giorno dell’anno sarebbe utile. Una scuola schiacciata sui punteggi conseguiti o sui titoli conquistati non fa bene a nessuno: né agli alunni, né ai docenti, né alle famiglie. E di sicuro non fa bene alla scuola.