Don Massimo Epis, preside della Facoltà teologica, evidenzia l’assunzione di responsabilità che emerge dal Discorso alla Città, coniugata alla gratitudine per il bene già in atto, all’urgenza di affrontare criticità che aprono le porte alla logica dello scarto, e all’attenzione per i migranti e l’ambiente
di don Massimo
EPIS
Preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale
Evidente è la continuità di stile di un pastore che non accampa pretese, ma che dimostra, anche con la parola, di farsi carico di una vigorosa passione civile. L’invito ad assumere pratiche di buon vicinato (nel Discorso del 2017) e l’autorizzazione a pensare (nel 2018) vengono ora coniugati “al futuro”. Del resto, proprio laddove, come in terra ambrosiana, grande è l’efficienza e l’intraprendenza è vivace, è strategico avere una visione. Nel discorso dell’Arcivescovo non si coglie un’ingerenza, ma un’assunzione di responsabilità.
Il futuro non è semplicemente un destino da subire con rassegnazione, poiché assume la fisionomia che anche il nostro coraggio gli imprime. Nella conclusione del suo discorso, quando monsignor Delpini puntualizza: «Io non sono ottimista; io sono fiducioso», prende le distanze dalla propaganda, da una retorica di auspici velleitari e ingenui. Se si riduce a strategia di imbonimento, l’ottimismo risulta irritante e alimenta la frustrazione. La fiducia a cui l’Arcivescovo si appella ha i tratti di una speranza che si misura con le tragedie (toccante è il riferimento alla strage di Piazza Fontana) e prende sul serio il desiderio di vivere che ci pervade. In quel che appare un pronunciamento di intenso afflato politico, avente cioè l’obiettivo di contribuire all’edificazione della città dell’uomo, spiccano almeno tre indicazioni prospettiche, a riguardo di atteggiamenti necessari per esercitare la nostra responsabilità verso il futuro.
In primo luogo l’ammirazione che si traduce in gratitudine. C’è un bene ch’è già sotto i nostri occhi: lo possiamo incontrare nei genitori che accolgono con attenzione e premure i figli; in coloro che assistono le madri in difficoltà; negli educatori che accompagnano gli adolescenti; nelle istituzioni che fanno alleanza per fronteggiare i problemi drammatici delle droghe e delle dipendenze; negli imprenditori intelligenti e creativi, impegnati nell’affrontare le sfide della nuova economia. Solo chi sa stupirsi e ringraziare delle buone pratiche che ci circondano non rinvia al futuro come a una utopia.
Proprio perché il bene che riempie di senso la vita è delicato, acuta è l’urgenza – ecco il secondo atteggiamento – di prendersi cura delle condizioni di vita che minano la stima di sé, spengono la prospettiva di un futuro dignitoso e mortificano la gioia di vivere. Di qui l’invito ad affrontare insieme alcune criticità che non si possono ignorare. L’elenco è fitto e puntuale, istruito da un’attenta lettura del contesto non soltanto ambrosiano. La denatalità è un problema che non può non interpellare la pubblica amministrazione e i legislatori. Così come la garanzia di un reddito dignitoso e della stabilità di una casa. Due soggetti, in particolare, attendono prossimità e cura: gli anziani e le persone vulnerabili e vulnerate. Benché siano “voci” che possono essere iscritte a bilancio come “passività onerose”, sarebbe certamente disumano un futuro progettato sulla logica elitaria dello scarto.
In terzo luogo, con uno sguardo al travaglio di un mondo in radicale trasformazione, viene richiamata l’attenzione a due fenomeni socio-culturali che esigono una sapiente lungimiranza. Anzitutto il complesso movimento migratorio, non riconducibile alla situazione drammatica dei rifugiati. In una società sempre più plurale, si debbono superare le pratiche assistenzialistiche di corto respiro e adoperarsi per la paziente costruzione di una convivialità delle differenze. Nuocciono a questa causa i regionalismi che mettono a rischio la comunità dei popoli e la solidarietà internazionale. Il secondo fronte, che guadagna sempre più la ribalta giornalistica e registra nuove forme di aggregazione, è la cura per la casa comune. Il degrado ambientale e lo sperpero delle risorse sono indegni dell’umanità. Nel richiamo a una ecologia integrale sono espliciti i riferimenti al magistero di Francesco.
Al conseguimento di questi obiettivi non servono improvvisazioni emozionali, tanto meno le polemiche e le contrapposizioni viziate da esibizionismo; quanto piuttosto una progettazione che metta in conto la fatica del pensare insieme, con una disposizione dialogale che non dissimula le diversità, ma le orienta ad una tensione comune.
La filigrana di questo discorso è ricavata da una fede che si modella alla scuola di Gesù. Ecco perché crede nella libertà della persona e nella sua vocazione alla fraternità. Chi si lascia incontrare da Gesù apre lo sguardo su di un futuro che non si inabissa nella morte. Perciò non teme la vulnerabilità della mitezza e la fatica di sostenere la debolezza umana, come dice Sant’Ambrogio, facendola pesare sulle proprie spalle.
L’Arcivescovo si rivolge a una Città sapiente, studiosa e audace, che ha guadagnato un prestigio sovranazionale nei campi dell’innovazione e della ricerca, delle applicazioni tecnologiche e dei servizi. Lo fa proponendosi come servitore del cammino di un popolo disposto a pensare e a lavorare insieme per un futuro che è anche nelle nostre mani.