L’attivista italo-egiziano incarcerato al Cairo per avere scritto un articolo ha partecipato da remoto all’incontro «Ora d’aria»: «Ringrazio chi ha pregato per me, non smetterò di battermi per i diritti umani»
di Annamaria
Braccini
«Ho capito subito a cosa fosse dovuto il mio arresto. Non mi sono scoraggiato, anche se il carcere è stato duro. Ringrazio tutti per aver pregato per me». Fa impressione vederlo sorridente e sereno anche quando racconta la sua terribile esperienza – peraltro non ancora terminata. Lui è Patrick Zaki, l’ormai notissimo attivista egiziano cristiano copto arrestato all’aeroporto del Cairo nel gennaio 2020, picchiato e torturato per aver diffuso notizie false (secondo le autorità) in un articolo scritto per un sito libanese relativo alle violenze perpetrate sui copti. Solo due giorni fa l’ennesimo rinvio al 29 novembre di un’ulteriore udienza del suo infinito processo. Vissuto, come sempre, con quella fiducia matura di chi sa di essere nel giusto.
È quanto emerge per intero nell’incontro dal suggestivo titolo «Ora d’aria», dai ricordi dell’amico e compagno di lotta Rafael Garrido, ma soprattutto nel dialogo a distanza tra Zaki – ovviamente collegato da remoto – e il giornalista Diego Cugia, inventore del personaggio di Jack Folla, il mitico dj italo-americano detenuto nel braccio della morte di Alcatraz. Domande in italiano e risposte serrate in inglese, anche molto personali, che, in una serata plumbea, sono come un raggio di luce e di speranza.
Guardare avanti per venirne fuori
«Non ho mai pensato a quello che ho fatto come a una colpa come hanno cercato, invece, di convincermi. È stata l’oppressione che si prova in carcere a farmi stare male, ma ho sempre creduto di potermi risollevare», ricorda Patrick che, dopo un periodo di isolamento, ha potuto parlare con qualche altro detenuto, e persino «giocare a calcio con un pallone improvvisato».
«In prigione ho cominciato a scrivere sulle pareti della cella pensieri di libertà e questo mi ha accompagnato – ha proseguito -. Ho sempre cercato di guardare avanti e, soprattutto adesso che ho accanto la mia famiglia, sono certo di venirne fuori. Sogno di poter continuare il mio master, di tornare all’Università, di andare avanti in un percorso di libertà, di lottare per i diritti umani» e, magari, come risponde alla domanda di Cugia sui sapori dei piatti tipici emiliani che mancano in un penitenziario egiziano duro, «di tornare a mangiare con i mei amici e compagni nelle trattorie di Bologna…».
Ma il discorso si fa subito serissimo quando Zaki narra di non aver avuto nessun particolare amuleto o piccolo portafortuna in galera: l’aiuto gli è venuto dalla lettura: «Stare in carcere è snervante, può rovinare per sempre, ma i libri che ho ricevuto da Bologna mi hanno molto aiutato e per questo devo ringraziare il Comune e la mia Università».
Poi il valore della preghiera, per Patrick un fatto intimo: «In pubblico non ho mai annunciato troppo la mia fede religiosa, anche se sono certo che a Dio posso chiedere ciò che vorrei. Penso che, a volte, proprio la religione possa essere una barriera e questo non favorisce il dialogo, ma sono grato a tutti coloro che hanno pregato per me. Voglio tornare in Italia, dove si possono esprimere opinioni, per sentirmi in un’atmosfera di libertà».
Il riferimento è sempre alle persone oltraggiate e umiliate in tante parti del mondo: «Certo, non è solo l’Egitto a calpestare i diritti umani, accade in molti Paesi anche democratici. Non voglio smettere di battermi. È necessario fare di più, dovunque e comunque, e su questo vorrei continuare non solo in Egitto, ma anche in Italia», conclude Zaki, pensando al suo futuro.
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