Nella prima serata dell'evento il dialogo tra don Alberto Ravagnani e monsignor Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari e Bitonto, già missionario in Kenia per tre anni: «Bisogna perdersi nella bellezza dell’incontro con l'altro»

Festival della Missione - Ravagnani Satriano
Un momento della serata

di Annamaria Braccini

«Parlare di missione significa parlare di vita, per i credenti, perché non è possibile pensare a un’identità cristiana senza la gioia. Parlare di festival significa parlare di una festa che deve tracimare dal cuore e contagiare la realtà. Farlo a Milano vuol dire prendere atto che questo mondo ci appartiene e che occorre saperlo abitare. Noi dovremmo avere dentro tale vitalità mentre, qualche volta, siamo ripiegati su noi stessi in modo autoreferenziale e triste: così la nostra credibilità cristiana è in crisi». Monsignor Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari e Bitonto, presidente della Commissione Cei per l’Evangelizzazione dei popoli e la Cooperazione tra Chiese, missionario in Kenia per tre anni, non usa mezzi termini per definire la bellezza della missio ad gentes e della missione nelle nostre terre che oggi chiedono nuova evangelizzazione.

E non potrebbe essere altrimenti, considerando che le sue parole risuonano presso le Colonne di San Lorenzo, tra i molti che seguono in presenza, ma anche in streaming, uno degli eventi più attesi del primo giorno del Festival della Missione: il suo dialogo con don Alberto Ravagnani, sacerdote ambrosiano e influencer. Che, aprendo l’incontro da vero comunicatore social, spiega con una sintesi efficacissima il senso non solo di questo dialogo, ma dell’intera manifestazione: «Noi vogliamo camminare insieme, incontrando persone come fanno i missionari che scoprono la piccola, grande verità che siamo fratelli tutti e come questo implichi la necessità di vivere per-dono, come si intitola il Festival: vivere per qualcuno, per qualcosa perché sono le relazioni che ci legano agli altri a fare la differenza».  

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Ad ascoltarli, in prima fila, ci sono monsignor Giuseppe Vegezzi (delegato Cei per l’Evangelizzazione e Cooperazione tra i popoli) in rappresentanza dell’Arcivescovo di Milano e dei Vescovi lombardi, il vescovo di Lodi monsignor Maurizio Malvestiti (delegato Cei per l’Ecumenismo), monsignor Erminio De Scalzi (che si è sempre occupato di Grandi Eventi) e monsignor Luca Bressan (vicario episcopale per la Cultura, Carità, Missione e Azione Sociale). Accanto a loro i rappresentanti del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano e del Forum delle Religioni, reduci dall’incontro «Per un’altra strada», svoltosi nella Basilica di Sant’Eustorgio e dedicato alla riflessione interreligiosa sui temi del Festival.  

Essere missionari oggi

«Ma cosa significa essere missionari oggi?», chiede Ravagnani a Satriano. «Siamo chiamati a recuperare il valore del dono, dell’umano e il senso profondo dell’identità nostra e degli altri, interfacciandoci. È la realtà, il mondo che ci sta intorno che evangelizza», spiega il Vescovo, che racconta come in Kenia – «apprendista stregone della missione», come si definisce – «un confratello in una catechesi sulle povertà disse che si vergognava perché non era povero come la gente di quel piccolo villaggio. Una donna si avvicinò e gli rispose: “Tu ci dai tutto quello che hai, hai un cuore da povero”. Quella donna aveva capito tutto, meglio di me con anni di studio e di preparazione alle spalle».

«Quando sono andato in missione, mi sono accorto che Dio cammina per strade che non sono prevedibili. Ho scoperto che lo Spirito santo arriva prima di noi. I nostri schemi e strategie non funzionano e questo è vero non solo in Africa, ma anche qui. Se capiamo quale sia il dono che ci è stato dato, non possiamo che chiedere perdono, come persone, come Chiesa, come società, specie in un momento difficile come questo. Noi parliamo d’amore come una lingua morta perché la nostra vita di adulti spesso non è credibile, specie agli occhi dei giovani. Credo che il Papa stia facendo di tutto per far capire che occorre un cambiamento di paradigma, al fine di interpretare i segni dei tempi e recuperare identità».

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Orizzonti nuovi

Insomma, la questione aperta rimane quella di come accogliere la differenza degli altri e camminare insieme: «Oggi scopriamo che, per declinare la comunione, dobbiamo attraversare la diversità. Mentre in passato abbiamo pensato che il metodo adatto fosse l’omogeneizzazione, oggi iniziamo a fare discorsi inclusivi e questo, credo, ci porterà a vedere cieli e orizzonti nuovi», si dice convinto monsignor Satriano.

Il pensiero non può che andare alla guerra. «È la conseguenza della nostra egolatria, della nostra condizione umana fragile. Quando ci si vuole impossessare della vita unicamente con i propri schemi mentali scatta la logica del conflitto. Bisogna perdersi nell’altro, nella bellezza dell’incontro, come quando si fa esperienza di missione. Occorre ripartire dalla relazione con la realtà, riallacciando i fili – non a caso un gomitolo multicolore è il logo della manifestazione – e avendo il coraggio dell’accompagnamento dell’altro», conclude il vescovo di Bari.

Poi prende la parola Agostino Rigon, direttore generale del Festival, che porge il saluto di benvenuto a nome dell’organizzazione ai partecipanti: «Benarrivati, questa è casa vostra. A piccoli colpi di scalpello abbiamo cercato di far uscire la bellezza dei volti dei dimenticati, degli “scarti”, e spero che ognuno possa portare a casa sguardi incantati», sottolinea, dando poi lettura del messaggio del cardinale Parolin (leggi qui). «Il Papa – scrive il Segretario di Stato vaticano – auspica che le giornate di festa e di preghiera, di ascolto e di confronto, possano favorire in tutti la consapevolezza che la missione non è un’appendice della fede, ma è il cuore della vita della Chiesa. Di fronte alle sfide contemporanee e alla tragedia delle guerre, è quanto mai necessario dare risalto a un aspetto significativo della missione, quello della testimonianza della pace».

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