Pontificale nella Solennità dell’Ascensione in Duomo. A tutti l’Arcivescovo, che ha presieduto la Celebrazione, ha indicato la necessità di «guardare nella direzione giusta». Invitati per l’occasione gli aderenti al Movimento “Rinnovamento nello Spirito”
di Annamaria
Braccini
Noi che siamo oggi, come quelli di 2000 anni fa in Galilea, in Giudea e in Samaria, «discepoli inadeguati, spaventati e orientati nella direzione sbagliata, incapaci di comprendere le Scritture e indecisi sui passi da compiere». Noi che, comunque, continuiamo a essere amati e considerati testimoni dell’annuncio, anche se la ragione profonda della missione ci sfugge. Noi, «gente così», per usare la definizione dell’Arcivescovo che presiede, in Duomo, il Pontificale dell’Ascensione del Signore. Per ricordare la memoria liturgica di san Paolo VI, che ricorre per la prima volta, in questo 30 maggio 2019, il Vescovo porta il Pastorale, la Croce pettorale e il Pallio appartenuti a Giovanni Battista Montini. Ascensione, solennità che, 40 giorni dopo la Pasqua di Risurrezione, viene celebrata di giovedì, secondo quanto prescrive il Rito ambrosiano. Tra le navate della Cattedrale -, dove trovano posto tanti aderenti al Movimento del “Rinnovamento nello Spirito” invitati per l’occasione -, concelebrano molti sacerdoti tra cui i Canonici del Capitolo metropolitano e don Matteo Narciso assistente ecclesiastico per Milano di RNS.
Mentre il Diacono proclama il Vangelo di Luca al capitolo 24, per un’antica tradizione della chiesa Cattedrale, il grande cero Pasquale, inserito nel quattrocentesco e prezioso candelabro – l’unico al mondo sospeso – sale fino alla sommità del tiburio, a rappresentare il mistero dell’ascensione del Signore.
L’omelia dell’Arcivescovo
E sono loro, gli Apostoli, «sconvolti e pieni di paura», come racconta, appunto, la pagina di Luca, i protagonisti dell’omelia del vescovo Mario. «La presenza di Gesù sembra peggio della sua assenza; la rivelazione della sua gloria provoca uno sconcerto più generale e più profondo delle vicende tragiche della passione e della morte di Gesù: i discepoli sono più inclini a credere in un fantasma che nella Risurrezione. Erano gente così i discepoli che Gesù aveva chiamato e scelto, accompagnato e istruito. Forse, siamo gente così anche noi: più inclini a credere all’assenza di Gesù piuttosto che a rallegrarci della sua presenza, più abituati a ricordarlo come morto, piuttosto che ad adorarlo come risorto, presente, vivo, potenza di Dio che trasfigura la storia; più impegnati a praticare comandamenti e a imitare esempi che a lasciarci avvolgere dalla sua gloria».
Discepoli che, in ogni tempo, sono «sono quelli delle domande sbagliate e delle attese infondate, che intendono la Risurrezione come una rivincita e si immaginano la gloria di Gesù come un trionfo mondano, aspettandosi che il popolo umiliato diventi il popolo dominatore e che il popolo oppressore sia un popolo sottomesso. Siamo gente così, anche noi: ci immaginiamo che si possa seguire Gesù e avere successo, che si possa imitarlo ed essere popolari e applauditi; ci immaginiamo che l’appartenenza alla comunità di Gesù sia come un specie di assicurazione che ci metta al riparo dalle tribolazioni e delle cose brutte della vita».
Eppure, basterebbe leggere la Parola di Dio per capire che la sequela è altro e altrove. «Abbiamo riletto e riletto le Scritture, abbiamo avuto maestri illuminati e affascinanti, come il cardinale Carlo Maria Martini e tanti altri che hanno spezzato il pane della Parola, eppure continuiamo, a ogni Celebrazione, ad ascoltare le Scritture e continuiamo a non capire, a pensare pensieri che non sono i pensieri che Dio. Siamo gente, nonostante tante spiegazioni, ancora con la mente chiusa», sottolinea il vescovo Mario.
Insomma, guardiamo nella direzione sbagliata, come gli uomini della Galilea, che assistono alla ascesa al cielo di Gesù, citati nel primo capitolo degli Atti. Uomini «dalle attese confuse e scontate» che pure vengono incaricati della missione «fino ai confini della terra».
«Forse ci aspetteremmo una parola di insofferenza e di stizza da parte di Gesù o che li rimandasse in Galilea. Invece il Signore rinnova il mandato e continua a contare su gente così, con tutti i loro difetti, le ottusità, le attese scentrate».
E questo, a motivo della loro disponibilità a ricevere lo Spirito.
La missione, la testimonianza è, dunque, questione di docilità, piuttosto che di impresa. «La missione è un lasciarsi condurre piuttosto che prendere iniziative: Non ci vengono risparmiati la fatica, l’intraprendenza, l’impegno a trafficare i nostri talenti, ma tutto deve essere ispirato da quello Spirito promesso che guida alla verità: tutto deve essere sottomesso a quella Parola che Gesù ha confidato perché in noi vi sia gioia».
«La missione è essere testimoni che incoraggiano tutti a incontrare Gesù e non è, certo, un mettersi al centro e legare a sé gente che ha bisogno di speranza, di perdono, di Dio, avendo meno bisogno di noi. Perciò, la missione è guardare nella direzione giusta, sostenuti dall’attesa del Regno: non dobbiamo guardare indietro, guardarci addosso, guardare in alto, guardare avanti: teniamo fisso lo sguardo su Gesù e camminiamo alla sua sequela. Gesù continua a fidarsi di noi. Chissà se stiamo imparando a fidarci di lui?», conclude l’Arcivescovo.
Alla fine, il saluto di ringraziamento viene indirizzato, a nome del Movimento RNS, da Giampiero Cicchelli, nuovo coordinatore per la Lombardia, che ricorda l’invito venuto dal vescovo Mario, per «essere presenti in Duomo all’Ascensione e portare un po’ di gioia», già il 30 aprile 2018 quando a Pesaro si svolse la 41esima Convocazione nazionale. Poi – l’intero RNS è stato impegnato nel rinnovo di 5000 tra cariche e organismi -, la presentazione del nuovo coordinatore diocesano, Alessandro Mori e dei 7 coordinatori per le singole Zone pastorali della Diocesi. E arriva, così, la proposta da parte dell’Arcivescovo di ritrovarsi in Duomo, magari annualmente, proprio nella Solennità dell’Ascensione.