«Aiutare gli altri mi aiuta a superare questo momento difficile», confessa Riccardo Passoni, volontario nel minimarket di Niguarda dopo essere finito in cassa integrazione. «Qui puoi fare la spesa come in un negozio qualsiasi, nessuno fa pesare la situazione», spiega Ana, tunisina, da marzo 2020 senza stipendio e senza aiuti pubblici
di Francesco
CHIAVARINI
«Improvvisamente mi sono trovato con un sacco di tempo libero. Il primo mese è stato anche piacevole. Ho riordinato la cantina, sistemato il giardino. Cose che avevo sempre rimandato. Poi però mi sono reso conto che mi mancava qualcosa. E così ho chiesto in parrocchia se potevo darmi da fare per chi stava peggio di me». È così che Riccardo Passoni, 48 anni, impiegato nel settore della ristorazione, in cassa integrazione dalla primavera scorsa, ha iniziato a fare il volontario all’Emporio della Solidarietà di Niguarda. Ogni mercoledì esce di casa, monta sul motorino e raggiunge il supermercato solidale, dove la gente che si è impoverita a causa del Covid viene a fare la spesa gratuitamente. «Aiutare gli altri sta aiutando me a superare questo momento molto difficile», spiega, mentre con il panno finisce di igienizzare il nastro su cui i “clienti speciali” di questo minimarket caricano ciò che hanno preso dagli scaffali prima di pagare alla casa con i punti solidarietà assegnati dalla Caritas.
Il Covid è entrato nella sua vita come un cataclisma. Nella società dove è assunto da 11 anni, Passoni si occupava di organizzare eventi: dai banchetti aziendali alle cerimonie di nozze. Poi la scorsa primavera, con il lockdown, quelle attività sono diventate improvvisamente incompatibili con le norme di distanziamento sociale imposte per rallentare la corsa del virus. Così, tranne una breve parentesi a dicembre, da marzo le uniche entrate sono state quelle garantite dalla cassa integrazione. Nel frattempo anche la compagna Ilaria, 46 anni, impiegata per un tour operator, è stata costretta a ridurre il proprio orario di lavoro. «Non abbiamo figli, abbiamo ridotto le spese e, grazie al cielo, con i risparmi accumulati negli anni stiamo riuscendo ad affrontare questo periodo – confida-. Più difficile è stato superare lo shock psicologico. Subito dopo il diploma ho sempre lavorato e mai mi sono trovato a non sapere come passare le giornate. Questo impegno mi dà uno scopo».
Intanto fuori si è formata la fila. Oggi è il giorno in cui arrivano formaggi, yogurt e altri prodotti freschi, e c’è sempre una grande movimento. Fuori dal negozio attende il suo turno Ana, 39 anni, nata a Tunisi ed emigrata a Milano dieci anni fa. Prima del Covid faceva l’aiuto cuoca in una mensa scolastica con un contratto a chiamata. Da marzo è a casa senza stipendio e senza aiuti pubblici. Il marito, 45 anni, anche lui tunisino, è assunto come portiere in un grande albergo di Milano. Al contrario di lei ha potuto chiedere la cassa integrazione. Ma ha ricevuto a giugno la mensilità di marzo. Intanto hanno dovuto pagare l’affitto, le bollette del gas e della luce. «I soldi non ci bastano più – racconta -. Siamo costretti a chiedere aiuto per mangiare. Ed è umiliante, perché siamo giovani e in forza, e questo è il periodo della vita in cui uno generalmente dà, non prende. Però qui nessuno ce lo fa pesare. Anzi, puoi fare la spesa come in un negozio qualsiasi. Mi porto anche il mio figlio più piccolo, così sceglie i cereali per la colazione. E se quel giorno non ci sono, gli spiego che li ha presi un bambino che ne aveva più bisogno di lui».
Da quando è iniziata la pandemia, gli 11 Empori della Solidarietà presenti in Diocesi hanno aiutato sinora più di 18 mila persone. «Questi dispensari alimentari si sono rivelati un’efficace rete di protezione – sottolinea Andrea Fanzago, responsabile dell’area povertà alimentare di Caritas Ambrosiana -. Ma non solo stanno sostenendo le famiglie in un momento di difficoltà. Lo stanno facendo rispettando la loro dignità. Condizione senza la quale è molto più complicato spingere chi è stato colpito dalla crisi a superarla».