Aperto dalla Caritas a Tabiago di Nibionno, il Centro si è poi trasferito a Maggianico e Villa Aldé, ampliando i suoi servizi sempre nel segno dell’accoglienza alle persone affette dal virus Hiv
di Paolo
BRIVIO
Trent’anni di servizio, nel territorio lecchese, a favore dei malati di Aids e delle loro famiglie. Trent’anni in cui l’immagine pubblica della malattia, e delle persone che ne sono state e ne sono colpite, è mutata radicalmente: da «peste del XX secolo» a sindrome con la quale è possibile convivere; da peccatori-untori da stigmatizzare e ghettizzare, a individui che possono ambire a una discreta qualità di vita e a un reinserimento in società.
Trent’anni in cui il Centro “Don Isidoro Meschi” ha cambiato tre sedi. Ma non la sua duplice natura originaria: luogo di cure mediche e di accompagnamento psicologico ed educativo, ma anche opera-segno di una carità che, assistendo, sollecita l’intera comunità a farsi accogliente e inclusiva.
Le origini e gli sviluppi
Il Centro “Don Meschi”, comunità residenziale che accoglie uomini e donne che convivono con il virus Hiv, fu aperto da Caritas Ambrosiana a Tabiago di Nibionno il 27 novembre 1992. Successivamente affidato alla gestione della cooperativa sociale L’Arcobaleno, si è trasferito nel 2016 nella casa delle suore di Maria Bambina a Maggianico di Lecco, per approdare nel 2021 nella sua sede attuale, a Villa Aldé di Lecco.
Il “Don Meschi” è stata la seconda comunità dedicata all’accoglienza dei malati di Aids (dopo il centro “Teresa Gabrieli” di Milano) aperta in diocesi da Caritas Ambrosiana. In tre decenni, ha assistito 242 persone; inizialmente molto giovani, segnate da legami familiari spezzati e con alte probabilità di non sopravvivere alla malattia. L’accoglienza post-ricovero ospedaliero le accompagnava con le cure palliative sino al momento della morte (ben 53 dei 75 decessi registrati nella struttura avvennero nei primi 10 anni). In seguito, l’avvento di farmaci anti-Hiv sempre più potenti ha cambiato le strategie di cura e le prospettive di vita dei malati; chi si cura presto e bene, anche se non guarisce del tutto, può condurre un’esistenza normale.
Un impegno anche educativo
Il nuovo scenario ha modificato le prospettive di lavoro del “Don Meschi”. Oggi la casa-alloggio offre accoglienza a persone con multi-problematicità sanitarie e sociali, segnate da decenni di malattia, invecchiate con l’Hiv o in alcuni casi con diagnosi recenti di infezione ma patologia già avanzata. «Soprattutto però il centro e la rete Caritas – avverte Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana – devono proseguire l’impegno informativo, educativo e culturale espresso sin dagli inizi». Occorre infatti anzitutto sensibilizzare, in chiave preventiva, le giovani generazioni (nel 2020, l’88,1% delle 1.303 nuove diagnosi registrate in Italia hanno riguardato individui tra 25 e 29 anni), al fine di renderle consapevoli e responsabili, in modo da abbattere ulteriormente il già declinante tasso di trasmissione del virus. E bisogna nel contempo mantenere alta la guardia nei confronti di pregiudizi e forme di stigma sociale, sempre possibili e striscianti: «Non bisogna mai smettere di curare le paure, che hanno ricadute culturali e producono discriminazioni – riconosce Gualzetti -. Ed è opportuno continuare a sollecitare istituzioni e comunità, ecclesiali e civili, perché favoriscano percorsi di cura, accoglienza e reinserimento, efficaci e rispettosi della dignità dei malati».
Dunque il trentennale non sarà solo celebrativo. «Sarà un’occasione per accendere i riflettori sull’Aids, tuttora presente anche nel Lecchese, benché se ne parli poco – conclude Renato Ferrario, presidente di Arcobaleno -. I tempi sono cambiati dal novembre 1992, quando l’apertura a Tabiago generò anche difficoltà, paure e resistenze. Ma rimane l’esigenza di un servizio “pedagogico” nei confronti del territorio, cui non ci vogliamo sottrarre».