Il teologo dell’Urbaniana ha incontrato i responsabili parrocchiali della Pg per riflettere sulle prospettive aperte dal Sinodo soprattutto in ordine alla trasmissione della fede: «In molti padri c’è scarso interesse per l'esperienza religiosa, esperienza che dunque non possono testimoniare ai loro figli»
di Claudio
URBANO
Ha preferito puntare l’attenzione sulla qualità della fede degli adulti, don Armando Matteo, docente di teologia sistematica alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, invitato in settimana a incontrare i responsabili di Pastorale giovanile delle parrocchie ambrosiane per riflettere su alcune questioni al centro del Sinodo dei vescovi sui giovani, a partire dalla trasmissione della fede. Uno spostamento di fuoco necessario, perché – se, con le parole di Pierangelo Sequeri, la buona notizia è che anche i giovani di oggi sono venuti al mondo con tutti i «fondamentali» necessari per essere protagonisti della propria vita, «idealisti e con la voglia di cambiare il mondo» che avevano i loro genitori -, la cattiva notizia – continua lo stesso Sequeri – è che «siamo cambiati noi», ovvero gli adulti. Una popolazione che, avverte don Matteo, non ha dato più spazio alla cura della propria fede cristiana e, sentendosi «diversamente giovane», non sa proporre ai ragazzi la prospettiva di una vita e di una fede adulte.
Ma quali prospettive possono aprirsi per la Chiesa nel Sinodo che ha appena preso il via?
È un’opportunità straordinaria di riflettere sulla vita buona delle nuove generazioni. I giovani vivono in una condizione complessa, difficile, fanno fatica a essere «gli eredi del mondo», coloro che lo rinnovano, a causa di tanti condizionamenti che derivano soprattutto dalle generazioni adulte. Il Sinodo è per la Chiesa un’occasione per riflettere a partire dai giovani, e coi giovani, anche sul proprio ruolo in questa società.
Lei indica la necessità di ripensare innanzitutto a una pastorale degli adulti…
Tanti adulti non vogliono fare gli adulti, non vogliono assumersi la propria responsabilità generativa ed educativa, traghettando così il mondo alle generazioni future, perché estremamente innamorati della giovinezza. Hanno fatto della giovinezza il senso della loro vita e anche una sorta di forma di religiosità: questo ha fatto sì che già dentro di loro ci fosse uno scarso interesse per l’esperienza religiosa, esperienza che dunque non hanno potuto trasmettere, né testimoniare ai loro figli.
Nell’Instrumentum laboris il Sinodo riconosce un qualche interesse per la spiritualità da parte dei giovani. Interesse che però non arriva fino al Vangelo e alla figura di Gesù…
Il tema della spiritualità è oggi molto frequentato sia nella sociologia, sia nell’ambito della comunità ecclesiale, ma ritengo che ciò abbia poco a che fare con la questione religiosa e della trascendenza. Mi sembra un modo con cui i giovani dicono la fatica di essere quello che devono essere, e che dunque abbia più a che fare con il desiderio di un diverso modo di stare al mondo. Per questo ritengo che non si possa scommettere immediatamente sulla ricerca spirituale, ma che questa debba essere mediata per poter poi giungere a un contenuto più direttamente religioso.
Lei indica tra le opportunità per coinvolgere i giovani quella dello stile degli ordini monastici, da sempre abituati a parlare ai non credenti…
I monaci hanno questa grande familiarità con il cristiano e il cittadino “qualunque”, sanno bene quanto spesso ciò che si è ricevuto del cristianesimo nella propria infanzia sia un lontano ricordo, e non danno nulla per scontato. È per questo che nelle comunità monastiche si dà un grande spazio all’esperienza della Bibbia, a una forma di preghiera molto attenta, a una liturgia curata, all’esperienza della solitudine e del ritorno su se stessi. Mi sembra che le comunità parrocchiali, i movimenti e le associazioni avrebbero parecchio da imparare per rendere le esperienze rivolte al mondo dei giovani ancora più ricche e feconde di quanto non lo siano attualmente.