Sulle polemiche dei mesi scorsi sulle Rsa risponde il presidente don Barbante, che rassicura sull’assenza del virus nelle strutture della Fondazione, dove sono riprese le visite gestite con cautela, e sul futuro dice: «Integrare sanità e assistenza, la Chiesa aiuti la società a crescere in umanità»

di Annamaria BRACCINI

PALAZZOLO

«Ci troviamo in una situazione di assenza del virus all’interno delle nostre strutture, di accoglienza sia degli anziani, sia dei disabili. In questo momento ci stiamo misurando con la cosiddetta ripartenza e con le sue difficoltà e sfide. Da un lato c’è una complessità dei protocolli che siamo stati chiamati a elaborare; dall’altro ci accorgiamo che occorre garantire non soltanto una corretta elaborazione di tali protocolli, ma anche una vigilanza costante quotidiana sulla loro attuazione, gestendo al meglio l’impatto economico degli oneri connessi»: questa la situazione attuale della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus, evidenziata dal presidente, don Enzo Barbante.

Al di là di protocolli e strutture c’è il fondamentale l’aspetto dei rapporti umani…
Certamente. Con la fine del lockdown si è diffusa l’idea che si fosse di fronte al “liberi tutti”, ma ovviamente non è e non può essere così. Tuttavia, consapevoli che l’assistenza morale ai nostri ospiti richiedeva anche spazi di prossimità e di contatto con i loro cari, ci siamo adoperati perché questo accadesse, non più e non soltanto tramite videochiamate o contatti telefonici, ma anche attraverso incontri in presenza, gestiti con la massima cautela.

Nei mesi scorsi, quando infuriavano le polemiche, non c’è dubbio che Fondazione Don Gnocchi e altre realtà del privato sociale siano state oggetto di attacchi mediatici particolarmente virulenti, spesso strumentali. Ritenete che si debba cambiare qualcosa nell’assistenza o, comunque, nelle Rsa?
La domanda è importante. Da un lato la vicenda dei media ci ha colpito profondamente, per lo scatenarsi di un’aggressione che aveva fondamentalmente lo scopo di creare un approccio sensazionalistico al dramma che si stava consumando, speculando purtroppo sul dolore e sulla sofferenza. I nostri operatori si sono trovati in una condizione di amarezza profonda, dovendo combattere questo virus nuovo con le poche armi e le poche conoscenze disponibili, soprattutto nei primi mesi, e d’altra parte, venendo considerati quasi responsabili delle morti e di quanto stava accadendo. Esiste un motto nella Fondazione: «Accanto alla vita, sempre». I nostri operatori hanno fatto una scelta in coscienza, quella di non sottrarsi al dovere di stare accanto agli ospiti, con continuità, accettando la sfida di misurarsi anche con il rischio del contagio. Per le tante vite che, purtroppo, la pandemia ha mietuto, altrettante persone sono vive grazie alla dedizione e all’impegno di tutta l’organizzazione. La scelta adottata dal nostro ente, anche rispetto a una strumentalizzazione mediatica, è stata quella del silenzio, dell’umiltà e della determinazione nella cura dei nostri ospiti.

Quali sono le prospettive?
Evidentemente il problema non è tanto quello delle Rsa, quanto quello di un approccio diverso al tema della cronicità, che finora ritengo sia stato puramente clinico-sanitario. Credo che si debba passare dal trattare gli anziani come malati al disegnare percorsi di vita, dove l’aspetto sanitario e assistenziale vengano integrati. Le Rsa non sono solo dei pensionati.

Un ripensamento così radicale non è solo questione di convivenza civile, di società o di welfare, ma coinvolge necessariamente anche la Chiesa…
Sono convinto che, da questo punto di vista, la Chiesa possa svolgere un ruolo davvero molto importante. Credo che tutto il mondo abbia sperimentato, in questa occasione, quella dimensione che è fondamentale della nostra umanità: la fragilità. Penso sia davvero importante che la Chiesa porti avanti un lavoro culturale intenso. Non dobbiamo puntare solo ad avere una società più efficiente, più capace di combattere il male dal punto di vista scientifico, garantendo a tutti spazi di libertà e di benessere. Occorre qualcosa di più: occorre che la nostra società cresca in umanità. In questa dimensione la Chiesa è chiamata a essere maestra. Stare bene non significa semplicemente né avere di più, né avere più libertà, ma comprendere che il mio bene dipende anche dal bene dell’altro, crescendo in solidarietà e umanità. In questo tempo, per combattere il male, sono state proposte innumerevoli soluzioni e ricette, molto spesso contraddittorie fra loro. Questo ha creato confusione, sofferenza morale nella gente, senso di frustrazione e, magari, anche di rabbia. Penso che la via, invece, sia riscoprire la fondamentale chiamata di tutta l’umanità a essere sincera: siamo semplicemente uomini. Affrontare le sfide e il limite della nostra umanità richiede capacità di lavorare insieme. Comprendere questo è un compito che viene affidato alla comunità cristiana.

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