In occasione della Messa in Duomo del 22 ottobre per i 120 anni dalla nascita, don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione, ricorda il sacerdote che ha speso la vita per la cura dei piccoli e degli ultimi
di Gianni
Borsa
Agensir
«Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio quale Dio me lo vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Don Carlo Gnocchi, «padre dei mutilatini», «inquieto cercatore di Dio», nasceva 120 anni fa, il 25 ottobre 1902, a San Colombano al Lambro (Milano). La Fondazione che ne raccoglie l’eredità (il sacerdote è scomparso nel 1956 ed è stato proclamato beato nel 2009), assieme alla diocesi ambrosiana, lo ricorda con una Messa in Duomo a Milano sabato 22 ottobre, alle 10.30, presieduta dall’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini (leggi qui).
La Fondazione conta oggi 26 centri residenziali e 27 ambulatori territoriali in varie regioni d’Italia oltre a progetti di solidarietà all’estero (Bolivia, Ecuador, Bosnia-Erzegovina, Burundi, Ucraina, Myanmar…). Con oltre 5 mila dipendenti e collaboratori e un elevato numero di volontari, assiste nelle sue strutture ragazzi, adulti e anziani con vari tipi di disabilità, sia acquisite che congenite, pazienti di ogni età che necessitano di riabilitazione cardiorespiratoria o neuromotoria, anziani non autosufficienti, persone con gravi cerebrolesioni o in stato vegetativo prolungato e ammalati in fase terminale negli hospice. La Fondazione sviluppa inoltre una vasta attività di ricerca scientifica e innovazione tecnologica ritenuta essenziale per fornire le cure migliori e più moderne, ponendo sempre al centro la dignità umana.
«La ricorrenza del 120° anniversario della nascita di don Carlo è un’occasione preziosa per riabbracciare la sua testimonianza umana e cristiana e ritrovare le radici del suo amore per le persone più deboli», afferma don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione.
Quali sono gli elementi centrali della spiritualità, della figura sacerdotale e del pensiero di don Gnocchi che ci parlano ancora oggi?
Don Carlo manifesta, in maniera coerente, nel suo itinerario sacerdotale, quella che potrei definire una grande sete di Dio. Emerge sia dalla sua vicenda umana che dai suoi scritti questo costante desiderio di incontrare il Cristo e raccoglierne la testimonianza in un rapporto personale. Tale ricerca credo trovi il suo culmine in occasione del momento più drammatico della sua vicenda, che è stata l’esperienza con gli alpini, in particolare durante la ritirata di Russia. In quel momento, nell’incontro con quella umanità ferita, devastata, messa a nudo, don Carlo conosce il volto di Cristo. E lì matura la consapevolezza di affidarsi proprio a Lui, in quel percorso che lo avrebbe portato a rinnovare l’incontro con Cristo nel volto dell’umanità sofferente. Volto che poteva essere assunto dai bambini mutilati, poliomielitici, mulatti… Ne emerge una caratteristica fondamentale del prete don Gnocchi: quella di essere sempre dinamico. È stato una persona attiva, nell’esercizio di una missione protesa a incontrare l’altro, a dialogare con tutti, a cercare lo sguardo e il cuore altrui. Di qui la sua esperienza come educatore, come cappellano, come uomo impegnato anche in ambito comunicativo. Cogliamo questa ansia di apertura, di dialogo che passa anche dagli scritti, sempre molto profondi. Aggiungerei che don Carlo ha coltivato in ogni istante un serrato confronto con Dio.
Ci dica di più…
Tante volte pensiamo alla preghiera come a un recitare formule. Lui aveva un dialogo quotidiano, aperto col Signore. Questa era per don Gnocchi la preghiera, autenticamente vissuta. È una spiritualità che sa valorizzare ogni momento e ogni esperienza della vita. C’è sempre, nella biografia di questo prete, la consapevolezza che Dio gli sia accanto. La preghiera diventa il fermarsi un attimo, pur nell’intensità di tante iniziative, e scoprire che Dio è con te. Non sei tu che cerchi Lui, ma tu, credente, che ti apri al fatto che Dio c’è sempre per te, per noi. Questo era il modo di pregare di don Gnocchi, che viveva in una condizione perennemente orante. E ciò diventa sostegno nei momenti difficili, che non sono mancati, della sua missione.
Se dovesse ricordare alcune delle parole-chiave per conoscere questo prete generoso e innovativo?
Ci sono parole che sono state sottolineate spesso, dopo la sua scomparsa da parte di chi lo ha studiato e interpretato. Per esempio l’impegno alla “restaurazione umana”: una delle espressioni con cui si è cercato di interpretare la sua opera a servizio delle persone fragili. Don Carlo riconosceva nell’altro un fratello portatore della dignità da figlio di Dio per cui ogni vita è un dono. E come tale va accolta, custodita e amata. «Accanto alla vita, sempre» è, non a caso, il motto scelto dalla Fondazione in occasione della sua beatificazione. In fondo penso che il concetto di «restaurazione della persona» possa essere interpretato come la possibilità di offrire a ogni bambino, a ogni persona quel riconoscimento di una dignità piena, che porta al rispetto della specifica condizione, così da rendere ciascuno pienamente integrato all’interno della società. E tutto ciò che poteva concorrere all’integrazione era utile: che fosse una stampella, una carrozzina o una operazione chirurgica. A lui importava inoltre che tale esigenza fosse socialmente avvertita, ovvero che la comunità si aprisse ad accogliere la fragilità come parte integrante della comunità stessa. Oggi, se posso dire, mi pare di avvertire che prima di dover restaurare delle persone, sia la società stessa ad averne bisogno: una società ferita, lacerata, che fatica a comprendere la propria condizione, che fa a meno di parti di sé nel segno dello “scarto”, come denuncia papa Francesco.
Don Carlo Gnocchi ha incontrato, nel corso della sua vita, un’infinità di persone: i soldati e i bambini, i piccoli e i poveri, i vescovi, i politici. Quale il profilo delle relazioni che ha intrecciato?
L’impressione che ne ho avuto è che avesse la capacità di essere franco, schietto e diretto nelle sue richieste, perché aveva ben chiari gli obiettivi da raggiungere. Che si trattasse di chiedere un sacco di farina o un sostegno economico, era sempre esplicito, di fronte a chiunque. Andava dritto alle questioni, senza rinunciare a volte a toccare i tasti giusti: si trattasse di costruire consenso, di accompagnare una vocazione, piuttosto che realizzare concrete opere di bene. Questo lo si deduce per esempio dalle sue lettere. Aveva una capacità comunicativa, verbale e scritta, tale da promuovere al meglio i progetti caritativi che stavano maturando.
Come vive, e quali prospettive mostra oggi, grazie alla Fondazione, la carità di don Gnocchi?
Ritengo che l’impegno più grosso che attende la Fondazione sia di tener vivo lo spirito di don Carlo nel cogliere le esigenze dell’umanità di oggi e in particolare di chi risulta essere ai margini, sia dal punto di vista fisico che sociale. La Fondazione è chiamata ad aggiornare le modalità per dare attuazione all’eredità di don Carlo. Penso ad esempio all’accessibilità, per tutti, ai servizi sanitari e socio-assistenziali: problematica già nella fase pre-Covid e divenuta ora ancora più complicata. Noi ci troviamo in un sistema che rischia di dare per carità ciò che spetta per diritto, con forme di assistenzialismo non in grado di soddisfare i bisogni della gente. La sanità oggi è fondata tutta sul budget: lo Stato decide qual è il carico di sanità che può sostenere, oltre il quale deve però intervenire il privato. Per cui il sistema non soddisfa il bisogno, ma si limita a fornire una parte della risposta al problema. Lo stesso dicasi per la povertà: nonostante alcune azioni recenti, i poveri continuano ad aumentare. Qualche volta anche noi ci troviamo dinanzi a tante difficoltà: finanziarie, organizzative, di carenza di figure professionali. A quel punto io mi permetto di ricordare da dove è partito don Carlo: dalle macerie di un Paese prostrato dalla guerra, quando mancava il pane da mangiare, tutto era da ricostruire… Eppure lui riuscì a smuovere tantissime persone e realtà, anche istituzionali, per aiutare gli ultimi. Oggi, tra pandemia e guerra, noi ci troviamo in una realtà sociale in affanno, ma non dobbiamo aver paura di metterci ancora all’opera. Costruire un mondo a partire dall’attenzione alle fragilità: questa, mi pare, sia la grande sfida che attende tutti noi.
La Fondazione Don Gnocchi nella storia e oggi
Dall’esperienza della guerra, vissuta soprattutto nella tragica ritirata di Russia come cappellano militare, matura la missione a cui don Carlo Gnocchi dedicherà la propria vita: partire dagli ultimi, per riscattare il loro “dolore innocente” e costruire una speranza per il futuro. A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti appena abbozzato negli anni della guerra: don Gnocchi viene nominato direttore dell’Istituto grandi invalidi di Arosio (Como) e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati. Inizia così l’opera che lo porterà a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Nel 1949 l’Opera ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la Federazione Pro Infanzia Mutilata, da lui fondata l’anno prima per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con decreto del presidente della Repubblica. Nel 1951 la Federazione Pro Infanzia Mutilata viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da don Gnocchi: la Fondazione Pro Juventute.
Vinta la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Fondazione si orienta verso il problema più pesante che affligge l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. L’opera di Don Gnocchi cresce rapidamente: il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza la prevenzione con la riabilitazione e pone l’uomo, con le sue potenzialità e le sue peculiarità, al centro del processo terapeutico, costituisce la novità esclusiva e la straordinaria modernità della Pro Juventute.
Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: costruire un moderno Centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno viene posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio di San Siro, a Milano. Struttura che don Gnocchi, già gravemente ammalato, non riuscirà a vedere completata.
La consegna in punto di morte (“Amis, ve raccomandi la mia baracca…”) diventa per i successori di don Carlo parola d’ordine. Se alla scomparsa del sacerdote (1956), la Fondazione vive un momento di consolidamento e di riflessione, già pochi anni dopo è in grado di decollare verso nuovi traguardi. Dal 1963 la Pro Juventute – che dal ‘57 era diventata “Fondazione Pro Juventute Don Carlo Gnocchi” – estende la sua presenza sul territorio nazionale, allargando lo specchio delle proprie attività riabilitative a ogni forma di handicap, dai motulesi ai neurolesi, ai malformati congeniti, focomelici, distrofici. Si occupa di patologie della colonna vertebrale, dell’apparato osseo, scoliosi, fino alle disabilità più impegnative sul fronte della riabilitazione.
La componente scientifica e di ricerca è andata sviluppandosi attraverso convenzioni con le Università. Il tutto ha portato, nel 1991, al riconoscimento – segnatamente per il Centro “S. Maria Nascente” di Milano – di Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) di diritto privato.