Nella Messa in Duomo per il 120° della nascita del Beato, l'Arcivescovo ha accostato i conflitti di oggi alla tragedia bellica a cui don Carlo partecipò e ha richiamato il suo esempio di vicinanza cristiana a quanti soffrono
di Annamaria
Braccini
Don Carlo Gnocchi, il beato don Carlo, il papà dei mutilatini, salvato da un alpino nella disastrosa ritirata di Russia della seconda guerra mondiale; quello che scrisse Cristo con gli alpini. Fa un poco impressione (e insieme offre un senso di serenità e sicurezza) ricordarlo tra le Penne nere e bianche che si affollano in Duomo, con in prima fila tante persone affette da diverse disabilità, eredi di quei piccoli segnati dal «dolore innocente» (come don Carlo li definì) e che furono il primo tesoro della sua Pro Juventute, radice della Fondazione di oggi. Che per ricordare il fondatore a 120 anni dalla nascita e nei giorni della sua festa liturgica (rispettivamente il 25 ottobre 1902 e il 25 ottobre 2009, data della beatificazione), è presente in Cattedrale in tutte le sue componenti: dal presidente don Enzo Barbante (che pronuncia il breve saluto di apertura) agli ospiti delle diverse strutture della “Don Gnocchi Onlus” con le famiglie, dai vertici delle strutture a ricercatori, medici, personale e volontari.
Autorità e concelebranti
Ci sono poi gli stendardi di tante associazioni, i gonfaloni delle massime realtà territoriali, gli Alpini – rappresentati anche da alti gradi, come il generale Massimo Panizzi e il colonnello David Colussi, vicecomandante dell’8° Reggimento, da anni gemellato con la Fondazione -, i labari carichi di medaglie, le autorità – tra una quindicina di sindaci di Comuni legati alla presenza della Fondazione -, Roberta Osculati con la fascia tricolore del sindaco di Milano, Stefano Bolognini per Regione Lombardia e Gian Luigi Panigada, primo cittadino di San Colombano al Lambro (paese natio di don Carlo).
Tra gli oltre 20 concelebranti, naturalmente don Barbante, monsignor Angelo Bazzari (presidente onorario della Fondazione e incaricato dell’Arcivescovo per la custodia e la diffusione del Beato), monsignor Carlo Azzimonti (vicario episcopale della Zona I), don Maurizio Rivolta (rettore del Santuario dedicato a don Gnocchi), i cappellani della Fondazione e, tra altri sacerdoti, don Mauro Santoro, responsabile della Consulta diocesana per la Disabilità.
A tutti l’Arcivescovo, che presiede la celebrazione, rivolge un primo pensiero all’inizio della Messa: «Facciamo memoria in questo Duomo, dove la comunione dei santi parla con le sue mille e mille statue, che fu caro a don Carlo, come a tutti i sacerdoti ambrosiani, non per rimanervi, ma per partire, per andare con i suoi ragazzi nei momenti tragici della guerra, per stare vicino ai suoi mutilatini, ai più fragili».
L’idiozia della guerra
Parole che tornano nell’omelia, a tratti commovente (leggi qui). «Le sofferenze del tempo presente spingono verso abissi insondabili, tenebre spaventose. L’immensa tragedia che gli Alpini hanno vissuto nel gelo dell’inverno russo ha stremato i corpi e le anime. Ha spinto don Carlo Gnocchi e i suoi compagni di sventura fino all’estremo. Di fronte al soffrire, di fronte alla tragedia enorme, ogni discorso sa di letteratura e ogni domanda sembra un lusso per chi ha ancora una riserva di respiro, un lume acceso».
«Ci sono uomini che sono stati laggiù nell’abisso spaventoso», come appunto don Gnocchi, che intitolando il suo scritto più famoso Cristo con gli Alpini ha offerto, tuttavia, una chiave per leggere questa stessa sofferenza e per uscirne: quel nome della speranza che è Cristo. «Quando tutte le parole sono inutili, quando i segni sono incomprensibili, quando le energie sono esaurite, quando ogni speranza è perduta, una certezza rimane: Gesù non abbandona, Gesù rimane con coloro che soffrono».
Il pensiero non può che andare alla guerra, di ieri e di oggi: «La tragedia della guerra è incomprensibile, ma si vede che nell’umanità è seminato un principio inestirpabile di idiozia, una sorta di pazzia per cui l’umanità non impara mai neppure dalle sue vicende più tragiche. E proprio adesso in quella terra cui sono morti i nostri Alpini e gente di ogni dove, proprio là ancora la guerra, sotto i nostri occhi. Le guerre di cui si parla e quelle di cui non si parla mai continuano a distruggere e a trascinare uomini e donne nell’agghiacciante condizione di impietrimento e quasi di morte interiore. Noi siamo qui per raccogliere la testimonianza di don Gnocchi e avvertiamo l’invito a seguire il comandamento di amare come il Signore ha amato».
Segno della presenza del Signore
Per questo, occorre essere segno, come don Gnocchi, di questo Dio vicino che ama anche nelle situazioni più difficili e nei momenti irrimediabili: «Talora le sofferenze sono croniche, irreparabili, quella pena che si deve portare per tutta la vita, che accompagna le persone con disabilità e i loro familiari e noi saremo là, ci prenderemo cura della “baracca” di don Gnocchi perché ci sia una casa, un sorriso, una mano amica per dire: “Cristo è con te e ti accompagna sempre”. Talora le sofferenze sono irrimediabili e la morte si profila come l’esito inevitabile e noi saremo vicini a chi soffre Talora le sofferenze sono misteriose e penetrano nell’intimità irraggiungibile della coscienza, come un’angoscia incomprensibile, un’inquietudine che non lascia pace al pensiero, alle emozioni, e noi saremo vicini». Vicini, per rivolgere uno sguardo amico anche di fronte a sofferenze nascoste, quelle «impercettibili», come le definisce l’Arcivescovo, eppure diffusissime oggi.
«Ci viviamo accanto e non ce ne accorgiamo: sono le persone di casa, ma sono come estranei, sono quelli che incontriamo tutti i giorni e si presentano bene, impeccabili, efficienti, eppure hanno dentro un dramma che nessuno ascolta. Noi vorremmo almeno sorridere e tendere la mano per dire: “Cristo è con te, e quello che nessuno ascolta Cristo lo ascolta, e quello che nessuno consola può accogliere il Consolatore».
Nel soffrire, Cristo è con noi
Da qui la conclusione: «L’abisso del soffrire è incommensurabile, sterminato, penetra in tutte le vite, le famiglie, le vicende umane, Di fronte al soffrire Carlo Gnocchi ha dato vita a una forma di assistenza, riabilitazione, sollecitudine che ha soltanto questa intenzione: dire Cristo è con te, con gli Alpini, con i deboli, i fragili, i malati, con quelli che si curano di loro. Questo è il messaggio che io vorrei dire, perché ciascuno senta che soltanto in Cristo c’è salvezza. Nessuno sarà risparmiato dalle prove della vita, ma noi potremo resistere all’impietrimento, che è una morte dell’anima, perché incontreremo il volto amico di Gesù».
«Specialisti con un’anima»
Al termine, dopo la preghiera del Beato recitata coralmente, ancora arriva un’ultima consegna, rivolta dall’Arcivescovo al personale della Fondazione.
«C’è sempre una missione da svolgere, una sfida da affrontare. Come tenere vivo lo spirito di Don Carlo in un contesto come il nostro nel quale vi è anche la preoccupazione di tante procedure da seguire, dei bilanci da portare in pareggio, delle difficolta e complicazioni nelle relazioni istituzionali? Come far si che la Fondazione non diventi dominata dalle logiche aziendali? Per tenere vivo lo spirito di don Carlo è necessario che ciascuno viva la sua presenza, quali amministratori e operatoti, come un compito e un’esperienza spirituale. Ma questo non basta, bisogna che intorno all’opera che si compie, ci sia una comunità, una Chiesa, i volontari, una fraternità che permette di ricordare che siete specialisti che fanno cose con un loro protocollo, ma che sentono la fraternità come supporto necessario per essere uomini e donne che amano e sono amati».
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