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Secondo don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova, per instaurare un vero dialogo in famiglia bisogna che ciascuno, in particolare i genitori, si confronti con la propria umanità più profonda e recuperi una autenticità, anche attraverso momenti di silenzio. Solo così i discorsi, oggi per lo più legati alle banalità quotidiane, potranno scendere nella verità dei vissuti di tutti.

di Stefania Cecchetti

Èsolo mettendo in gioco a tutto campo la propria umanità che gli adulti possono sperare di dialogare con i propri figli. Lo afferma con convinzione don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova. Abituato a fronteggiare quotidianamente situazioni di disagio giovanile, don Rigoldi sa che la radice di molti mali sta nella comunicazione superficiale – quando non assente – che affligge le nostre famiglie.

«C’è un forte bisogno di senso – sottolinea don Rigodi -. Non basta l’ascolto: i figli vanno osservati, ascoltati, ma poi bisogna interloquire e per parlare con loro un adulto deve avere una sua vita interiore e una forte consapevolezza di sé. Solo così si possono dire delle cose importanti. Le statistiche ci dicono che il 90% dei discorsi in una famiglia ruotano attorno alle cose “quotidiane”: cos’hai fatto, dove sei stato, ti è passato il raffreddore, che voto hai preso a scuola. Èraro che si scenda nei vissuti, che si parli di rapporti, che si diano giudizi sulle scelte importanti. E questo è inaccettabile. Per parlarci dobbiamo recuperare la nostra umanità profonda, il calore, l’intelligenza. In una parola scegliere di essere autentici».

Il problema è, innanzi tutto, di tempi, modi e luoghi: «In un’epoca come la nostra – dice don Rigodi – il tempo del dialogo si riduce spesso a essere un tempo stressato e frettoloso. Manca un tempo che io definisco “pacifico”, capace di guardare, ascoltare, pazientare, anche semplicemente far chiacchiere, senza avere troppa fretta di arrivare subito a un dunque. Per molte famiglie è un problema, spesso si hanno a disposizione solo le sere, quando i genitori tornano stressati dal lavoro; oppure ci sono il sabato e la domenica, quando non sono impegnati dallo shopping».

E parlando di vita interiore sorge spontaneo pensare alla difficoltà che anche le famiglie cattoliche hanno spesso di trovare tempi per pregare insieme: «Se fossi padre io non proporrei mai di leggere in famiglia la Parola di Dio o di recitare il rosario. Sono cose belle a dirsi, ma nella pratica mi sembra ci sia sempre qualcuno che vince (i genitori) e qualcuno che perde (i figli), perché subisce la decisione controvoglia. Piuttosto meglio un semplice segno della croce ai pasti o una gesto e una preghiera in qualche momento particolare. Credo che le manifestazioni religiose vadano tenute separate, differenziate secondo le esigenze delle diverse età. L’importante è avere una vita interiore, riuscire a bloccare un tempo importante, abituarsi a ricercare il senso delle cose. Non occorre “fare” sempre, anche dal punto di vista religioso, riempire tutti i vuoti. Non è un caso se molte delle persone desiderose di approfondire un percorso spirituale si rivolgono ai buddisti e non a noi cattolici. Questo mi crea tristezza, qualche volta perfino un po’ di gelosia».

Quali sono i “frutti malati” della mancanza di dialogo nelle famiglie di oggi? Verrebbe spontaneo pensare al disagio giovanile, alle situazioni limite, visto il lavoro del nostro interlocutore. Invece lui ci spiazza dicendo: «La gran parte dei ragazzi non sono cattivi, non finiscono nel disagio. Il rischio più frequente è la banalità delle prospettive di futuro. Nel senso che si lavora per vivere, si fa sesso quando capita l’occasione, si pensa a se stessi e agli altri solo se avanza, si coltivano poche amicizie fidate e sostanzialmente non si pensa mai al resto del mondo, non si valorizzano nemmeno i propri talenti. Si vive senza né alti ne bassi. Ma basta che questo delicato equilibrio si rompa, per una malattia o una separazione, e allora crolla tutto».

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