Il volume di Andrea Tornielli alla base dell’incontro nella Casa di reclusione, che ha visto l’autore dialogare con l’Arcivescovo, il cantautore Roberto Vecchioni e alcuni detenuti su temi come il perdono e la speranza
di Annamaria
Braccini
Il perdono, la speranza, il rapporto con Gesù, lo stupore di scoprirsi, magari dopo tanti errori, capaci di amare e di essere buoni. Questioni, sentimenti, aspirazioni che appartengono a tutti, ma che, declinate in un carcere di massima sicurezza come quello di Opera, alle porte di Milano, assumono un significato e un sapore molto diversi.
Per questo la presentazione del libro di Andrea Tornielli Vita di Gesù, con commento e introduzione di papa Francesco (Piemme), è stato qualcosa di molto diverso da un semplice appuntamento editoriale. Anzitutto per la presenza di chi ne ha discusso con l’autore: l’Arcivescovo, il cantautore Roberto Vecchioni e alcuni ospiti della Casa di reclusione, moderati da Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, attiva dal 2018 a Opera con iniziative a sostegno dei detenuti.
Particolarmente interessante la struttura delle pagine di Tornielli, direttore editoriale dei media vaticani presso il Dicastero della Comunicazione della Santa Sede, giornalista di molte testate nazionali, vaticanista di lungo corso. Una narrazione – come lui stesso spiega -, la cui ideazione nasce al tempo del lockdown, nell’ascolto della Messa quotidiana del Papa da Santa Marta e dalle brevi omelie proposte in quelle celebrazioni, accostate alla ricostruzione della vita cronologica del Signore, attraverso un’immersione nelle scene, nei personaggi, nelle vicende che lo videro protagonista. Un metodo che ha affascinato e convinto i reclusi chiamati a dialogare con i relatori, come hanno testimoniato i molti applausi che hanno costellato la serata, dal primo che scatta spontaneo quando il direttore della struttura, Silvio Di Gregorio, dice all’Arcivescovo: «La sua presenza è un’occasione di festa, abbiamo bisogno della sua consolazione, della sua parola». E le parole, tre nello specifico, arrivano subito.
Gesù compagno di viaggio
«Gesù non è un libro – sottolinea l’Arcivescovo -, ma un compagno di viaggio e la sua vita è un racconto che non vuole essere un romanzo, non una cronaca che racconta, ma che testimonia. È una vita scritta nella carne e nei sentimenti. Il Papa raccomanda un contatto diretto e quotidiano con i Vangeli e anche questo libro è un amico che propone una conversazione, non unicamente una lettura».
La seconda parola è appunto conversazione, che è un gradevole sostare, dedicare tempo, aspettandosi qualcosa di interessante: «Un momento di confidenza e di conforto: nella conversazione a proposito di Gesù si colgono inviti a conversione».
Terzo, la centralità della figura di Cristo: «I Vangeli hanno una tale importanza che vengono letti per moltissimi motivi, ma in questo volume, che pure ha ricostruito il contorno, interessa unicamente Gesù, che ha percorso le strade della sua terra, ha vissuto come un povero, accettato, esaltato, umiliato, condannato».
Il dialogo con i reclusi
Poi le domande che arrivano da Claudio, Vincenzo e Carlo.
Il primo chiede a Vecchioni come mai la figura di Gesù ha ispirato tanti artisti. Chiara la risposta del cantautore: «Perché l’artista è la persona umana forse più vicina a Dio. Gesù è un grande artista: pensiamo alle parabole che raccontano un fatto in modo immediato e popolare, rimandando ad altro. L’artista nasce e vive per gli altri, è anche “artistra”».
E, ancora, «come è possibile che le scene descritte nei Vangeli accadano ancora oggi?». «È possibile se manteniamo lo stupore – osserva monsignor Delpini – che diventa scelta di fare del bene. Lo stupore di essere buoni, anche se abbiamo l’etichetta dei cattivi: questo è il primo passo della fede, che non è solo un pensiero, ma una decisione. Guardando Gesù e le sue ferite, scoprendo il suo amore per noi, ci scopriamo capaci di amare».
Il pensiero va agli sguardi del Signore che il Papa più volte richiama nella prefazione al libro. Nota Tornielli che spiega di aver cercato di essere lui stesso un personaggio presente agli episodi raccontati: «Tanto nel Vangelo è affidato agli sguardi», basti pensare al miracolo delle nozze di Cana, a Zaccheo (di cui Vecchioni legge la parabola dell’incontro con il Cristo) o «all’incrocio degli sguardi di Gesù e di Pietro che, pur avendolo rinnegato tre volte, si sente perdonato e piange. L’incontro con Gesù non è una teoria, un’idea, ma passa attraverso i suoi sguardi di amore e di misericordia immensa. Il Vangelo diventa attuale se abbiamo di fronte ai nostri occhi fatti di Vangelo. Non basta la descrizione, il Vangelo deve diventare qualcosa che accade oggi, magari dove o da chi meno ce lo aspettiamo».
Una relazione di amore e di perdono – questa – che Vecchioni ha cantato in una composizione musicale scritta appositamente, su richiesta di Mosca Mondadori, per papa Francesco e che recita: «Non c’è niente di così grande come il perdono, di così infinito come un perdono». Il riferimento è anche a un’altra canzone, La stazione di Zima, con cui il cantante ha voluto delineare il suo rapporto con Gesù: «Bisogna vivere completamente e sempre, amando la terra, meglio se nella prospettiva di qualcosa di più grande. Non si può avere fede solo nell’aldilà, ma anche nell’al di qua», sottolinea.
Il perdono e la speranza
Santino, che si definisce un capro espiatorio, chiede all’Arcivescovo come poter perdonare: «Il perdono è una parola che deve essere chiarita, è il desiderio che il peccatore sia felice, che l’uomo sia ricostruito. Non è nascondere la verità, ma è la verità vista in radice; non è un fatto burocratico o psicologico, il non avere sentimenti di vendetta, ma il desiderio che chi ha fatto il male diventi capace di fare il bene, riconoscendo il male che ha fatto. Perdonare non è dimenticare il male subito, ma è la verità di chi si dispiace di aver sbagliato, desiderando il bene di colui che ci ha fatto del male: Questo è il paradosso del perdono cristiano. Quando perdoniamo assomigliamo a Dio, siamo come lui».
Si può chiedere perdono anche a chi non c’è più? È l’ultima domanda di un altro detenuto che ammette di aver fatto del male: «Le persone che muoiono sono presso Dio, e se chiedi perdono con intensità vedrai come una luce amica, un sorriso, che arriva da un luogo che non riusciamo a immaginare e che dice: “Sei perdonato”», conclude l’Arcivescovo Mario, prima che, suggellando l’incontro, ognuno dica cosa sia la speranza.
Per Vecchioni, l’amore. Per un recluso, «fare le ostie» (a cura della Fondazione da tempo a Opera vi è un laboratorio di produzione). Per un altro, la famiglia. Per Tornielli, «sapere che c’è qualcuno che mi vuole bene così come sono». Per Mosca Mondadori, «la pace con se stessi». Per l’Arcivescovo, «una promessa che chiama, che fa sì che il tempo sia luogo di responsabilità, una promessa fatta da Dio che responsabilizza sul presente». Quel presente e futuro, dove «forse il carcere non dovrebbe esistere» e dove, anche se «sarà un percorso lungo, la riabilitazione attraverso il lavoro, la cultura, il servizio, possano far considerare i detenuti non un peso o un pericolo, ma collaboratori per una società migliore», conclude monsignor Delpini.
Leggi anche: