La Diocesi ha, da oggi, 5 nuovi Diaconi Permanenti, ordinati dall’Arcivescovo durante il Pontificale nella solennità di San Carlo Borromeo. Uomini chiamati a fare della loro vita un dono, amando a esempio di Cristo

di Annamaria BRACCINI

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L’invito a vivere l’unità della Chiesa, ognuno con i propri carismi, amando con uno stile capace di rendere presente al mondo l’amore di Cristo.
Nella Solennità in cui si ricorda il copatrono della Diocesi, san Carlo Borromeo – l’arcivescovo riformatore della Chiesa ambrosiana – il suo attuale successore presiede il Pontificale e conferisce l’Ordinazione ai Candidati al Diaconato Permanente. Cinque uomini, tutti sposati e padri di famiglia, che, nella Cattedrale gremita, sono accompagnati da mogli e figli. Per l’occasione, torna in Duomo il cardinale Scola che assiste al Rito, concelebrato dai membri del Consiglio Episcopale Milanese, dal Capitolo metropolitano, dal Rettore dell’Equipe per la Formazione al Diaconato Permanente, don Giuseppe Como, dal rettore del Seminario, monsignor Michele di Tolve e da un centinaio di sacerdoti tra cui i parroci delle Comunità di origine e di destinazione dei Diaconi.
Dal Vangelo di Giovanni nel brano del “Buon Pastore”, nasce la riflessione che monsignor Delpini propone all’assemblea, dopo la presentazione degli Ordinandi.
Il lupo che assale le pecore, difese appunto dal pastore buono, si fa chiara metafora di tanti mali del presente o, meglio, dell’umanità di sempre.
«Il lupo, l’avidità, assale il corpo sociale e insinua che l’interesse privato prevarica sul bene comune e così la convivenza si frantuma in gruppi di interesse; il lupo, lo spavento, assale le persone miti e le induce a cercare protezione nella solitudine e così il convivere si frantuma in celle da eremiti con le porte corazzate; il lupo, l’arroganza individualistica alimenta l’orgoglio e l’egoismo e costruisce persone che vivono pensando di essere il centro del mondo e così la solidarietà si spezza in una giungla di arrivisti; il lupo, lo spregio per i diritti e le leggi, persegue progetti di potere e di guadagno aggredendo le regole della società e così la legalità si riduce a una complicazione procedurale in cui cercare la scappatoia per i propri scopi; il lupo, il branco selvaggio, che si aggira e si appropria di spazi che diventano infrequentabili e così la città si frammenta in territori dominati da questa o da quella banda».
È questa la grande e subdola insidia che accomuna tutte le diverse situazioni: il frammentare l’insieme, rompere l’unità, distruggere il legame sociale e umano, suggerisce Delpini che, per il Pontificale, indossa il Pallio, l’anello e il Pastorale borromaico, così come la copia dei preziosi paramenti di San Carlo e la croce pettorale donata dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria durante il suo soggiorno a Milano.
Tutto, d’altra parte, anche la biografia di san Carlo, letta in sostituzione della I Lettura, parla di una storia di unità, quella che il santo Vescovo cinquecentesco volle, in ogni modo, preservare, operando contro le divisioni della nascente Riforma luterana e stabilendosi a Milano.
Ma come si pratica un Ministero perché sia a servizio della comunione? In modo contrastare la minaccia del lupo?
Tre le indicazioni dell’Arcivescovo, a partire da una sorta di “visione di fondo”: «chi ha ricevuto la grazia è chiamato a fare della sua vita un dono, un servizio fino al sacrificio».
Anche perché l’esistenza vissuta in un’altra logica, non è vera vita.
«Che vita è quella del mercenario, quello che serve finché ci sono vantaggi e non ci sono pericoli? La vita che merita di essere vissuta è la vita donata: non c’è altra possibilità di avere stima di sé, di vivere con la fierezza di non vivere invano se la vita è trattenuta, se diventa un esercizio di egoismo e di egocentrismo».
Poi, la coerenza del comportamento di chi si fa avanti per mettere in pratica il comandamento dell’amore che chiede di «rendersi, a propria volta, amabili». Anche perché «spesso si deve constatare che le difficoltà delle comunità, le divisioni che si creano, non nascono da posizioni ideologiche contrapposte, non nascono, in questo nostro tempo, da eresie che minano l’ortodossia, ma dalla reazione aspra e istintiva, dalla ostinazione che non vuole ammettere i propri torti, dal risentimento che medita una rivincita piuttosto che la riconciliazione», affonda Delpini che esorta «ad amare in modo tale da dare testimonianza dell’amore di Dio».
In terzo luogo, l’atteggiamento di docilità all’opera di Dio, verso il quale può dare un aiuto fondamentale la vita familiare e la comunità «con le sue attese e, talora, le sue pretese ponendo domande al nostro modo di essere diaconi, preti o vescovi».
Infine, arriva la gratitudine «per questi cinque uomini. Riconosciamo in tutto questo la potenza di Dio che ci chiama a vivere nella comunione, a edificare una Chiesa unita, a resistere alle potenze del male che vogliono disperdere il popolo di Dio. Siamo convinti che solo in comunione, solo uniti possiamo essere segno del Regno che viene».
Un “segno” che si rende evidente, subito dopo, nei gesti dell’Ordinazione diaconale, con gli impegni degli Eletti – il “sì, lo voglio”, “sì, lo prometto” –, le Litanie dei Santi intonate dall’intera assemblea, l’imposizione delle mani dell’Arcivescovo e la preghiera di Ordinazione nel silenzio, la vestizione degli abiti diaconali, indossati con l’aiuto delle mogli, la consegna del Libro dei Vangeli.
A conclusione della Messa, prima di salire con gli ormai Diaconi e le loro famiglie in Episcopio dove vengono comunicate le destinazioni, c’è ancora tempo per qualche ringraziamento, anzitutto al cardinale Scola, con l’auspicio di rivederlo spesso in Duomo – «in questa che è la sua casa» –, dice l’Arcivescovo, richiamando la Lettera inviata alle parrocchie proprio per sollecitare le vocazioni all’impegno diaconale e per sensibilizzare le comunità a comprenderne l’importanza.

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