Il Rettore - contagiato come alcuni docenti, educatori e studenti, e ora guarito - racconta come l’emergenza abbia stravolto la vita ordinaria a Venegono, dalle abitudini quotidiane all’azione educativa. Rimandate le ordinazioni presbiterali di giugno
di Annamaria
BRACCINI
«Abbiamo condiviso la situazione di tutte le altre persone, non abbiamo avuto privilegi. Il 23 febbraio, quando è arrivata la notizia della sospensione delle Messe vespertine della domenica e degli oratori, ho chiamato immediatamente il medico del Seminario, la dottoressa Rosa Maria Bianchi Cervini, che era in riunione con il direttore dell’Azienda territoriale sanitaria di Varese-Insubria. I clinici hanno consigliato di radunare i nostri ragazzi perché, se non erano stati già colpiti, avrebbero evitato di esserlo e sarebbe stato un alleggerimento per il sistema sanitario. Nel caso avessero contratto il virus, potevano essere, invece, curati meglio con una quarantena più semplice. Quindi ho chiamato l’Arcivescovo, riferendo quanto dettomi dai medici e lui ha dato l’indicazione di convocare tutti i seminaristi. Così abbiamo subito fatto, dandoci regole precise e dividendoci in 4 comunità: il biennio, il quadriennio, i diaconi e gli educatori. Parliamo in totale di 150 persone interessate di cui 123 seminaristi».
Monsignor Michele di Tolve, rettore del Seminario arcivescovile di Venegono, ricorda ogni momento di queste settimane difficili. Mentre dopodomani avrebbe dovuto essere festeggiata la tradizionale Festa dei fiori, come ogni anno, il pensiero non può che tornare al recentissimo passato.
Dopo cosa è accaduto?
Quando è emerso che due seminaristi avevano sintomi più forti degli altri, ho chiesto di effettuare i tamponi e sono risultati positivi. Allora è subentrata una clausura ancor più totale: i ragazzi e anche noi superiori eravamo chiusi nelle nostre camere, pur proseguendo a fare lezione e pastorale attraverso una piattaforma digitale. Non abbiamo potuto più celebrare l’Eucaristia insieme. I padri spirituali, inoltre, mettevano l’Eucaristia in teche poste fuori dalle porte, dicevano la formula «Beati gli invitati alla cena del Signore» e i seminaristi potevano fare, a loro volta, la Comunione.
Anche la vita ordinaria è stata stravolta?
Sì, certamente. L’azienda di ristorazione Bibos preparava per ciascuno box di vivande personali che venivano distribuiti dai ragazzi, vestiti secondo i protocolli di sicurezza. Ognuno ha mangiato nella propria camera.
Quanti sono stati contagiati?
Ufficialmente sono risultate positive 18 persone, però fin da dicembre scorso, abbiamo avuto ragazzi con febbriciattole strane: a nostro parere quello era già Covid-19. Io stesso ho avuto una febbre che è durata, per due ore in due giorni, con una temperatura di 37.1. Sono stato sottoposto a tampone e sono stato riconosciuto positivo: successivamente due controlli negativi mi hanno permesso di uscire dalla quarantena. Ho potuto anche notare che la stragrande maggioranza degli educatori – tranne due -, non ha contratto il virus. Il prorettore, i padri spirituali, e io – che siamo vicini ai ragazzi -, l’abbiamo, invece, avuto tutti. Nessuno però è stato ricoverato: ringrazio per l’ottima assistenza fornita dalla nostra dottoressa e dai medici dell’Ats di Varese che ci sono stati molto vicini.
Quest’anno, il 13 giugno, non vi sarà, in Duomo, nemmeno l’ordinazione presbiterale…
È così, ma tengo a dire che il Seminario non ha mai smesso di svolgere la sua funzione educativa, anche grazie agli educatori docenti, che hanno continuato a insegnare, e a noi formatori, che abbiamo accompagnato i giovani dal punto di vista spirituale e pastorale. Certo, la data prevista non potrà essere quella, però è stato molto bello che i diaconi abbiano inviato una lettera all’arcivescovo in cui è scritto: «Eccellenza, la nostra vita è data alla Chiesa: quello che lei deciderà, noi faremo. Sappia che lei può disporre di quanto desidera e noi saremo con lei». Credo che sia la risposta migliore a quanto è accaduto.