15 giovani uomini originari della Diocesi, un candidato della Repubblica Centrafricana e sei del Pime, sono stati ordinati diaconi transeunti dall’Arcivescovo. I futuri presbiteri, con il Seminario, andranno a Roma e vedranno il Papa il 13 ottobre per il Sinodo dedicato i giovani

di Annamaria Braccini

ordinazioni diaconali 2018 (D)

Quale è il legame tra il telegramma – anzi, la logica per cui lo si utilizza come strumento di comunicazione concisa, essenziale, rapida – e i candidati al Presbiterato?

Non è facile intuirlo immediatamente, ma ciò che dice l’Arcivescovo nella sua omelia appunto per la Celebrazione, da lui presieduta, dell’Ordinazione dei Diaconi transeunti (che diventeranno preti i prossimo 8 giugno), illumina e, per così dire, delinea sinteticamente il profilo che gli uomini chiamati dalla vocazione totale al Signore, devono avere.

In un Duomo gremito – dove trovano posto migliaia di fedeli, i parenti degli Ordinandi, gli appartenenti alle loro Comunità di origine, tanti giovani e i seminaristi -, la voce di monsignor Delpini è chiara nell’indicare uno stile di cammino. Accanto al vescovo Mario concelebrano, in altare maggiore della Cattedrale, i Vescovi ausiliari, i Vicari episcopali, il rettore del Seminario, monsignor Michele Di Tolve con i Superiori, i Canonici del Capitolo Metropolitano, i Superiori del Pime.

Nel transetto di san Giovanni Bono concelebrano oltre un centinaio di presbiteri, tra cui i parroci dei paesi di appartenenza dei Diaconi. 15 giovani uomini di età compresa tra i 24 e i 33 anni provenienti dalle diverse zone della Diocesi, cui si aggiunge un Ordinando originario di Bangui nella Repubblica Centrafricana, giunto in terra ambrosiana per studiare e che, dopo l’Ordinazione presbiterale, tornerà nella sua Diocesi di incardinazione.

In Duomo vengono ordinati anche sei Diaconi transeunti del Pontificio Istituto delle Missioni Estere.

A tutti si rivolge monsignor Delpini, che richiama quella che definisce «la spiritualità del telegramma» quale strumento usato meno che nel passato, ma ancora necessario.

L’omelia dell’Arcivescovo

Sono 7 le specifiche peculiarità – ma, forse meglio parlare, in un contesto simbolico, di qualità – che il telegramma riassume in sé. Anzitutto, il suo essere, necessario; poi, l’urgenza di far sapere qualcosa ad altri. «Non c’è tempo da perdere. C’è gente che ha bisogno della buona notizia e della speranza, per non cedere allo scoraggiamento e alla disperazione. Non è possibile disperdersi in curiosità o perdersi in discussioni. Si deve annunciare che ora si è compiuta la salvezza».

E, ancora, la irrilevanza di un simile strumento comunicativo, in quanto tale, ma l’importanza di chi manda il telegramma e di cosa vi si dice.

«La spiritualità del telegramma è quella di offrire un servizio, non di richiamare l’attenzione su di sé. È importante che sia chiaro chi lo ha inviato e quale sia il contenuto del messaggio. I destinatari dell’annuncio devono essere aiutati a rivolgere il pensiero alla sollecitudine di quel Signore che si prende cura di ciascuno e rivolge la chiamata urgente, l’annuncio determinante, il messaggio necessario per vivere e per sapere perché fare festa, perché c’è una speranza che alimenta la gioia».

Infatti, «nessuno chiede al telegramma se sia contento o se sia triste, se è ben riposato o se è stanco. L’importante è che la notizia giunga a destinazione. La spiritualità del telegramma è una spiritualità adulta, che non si lascia condizionare troppo dall’umore e dalla voglia, perché è tutto preso dalla sua missione. Non si ripiega a compiangersi quando si sente ignorato o maltrattato, non si compiace di sé quando si vede accolto con esultanza. Non deve pensare ad altro che ad eseguire il compito che gli è stato affidato».

Il quinto punto riguarda il materiale del telegramma, scritto su carta che non è preziosa.

«La spiritualità del telegramma non richiede di essere un genio, un eroe o un campione: basta essere disponibile a ricevere il messaggio, a custodirlo con precisione, a farlo giungere a destinazione. Il servizio del telegramma è, dunque, praticabile da chi è umile e modesto».

Senza dimenticare che il testo deve essere breve: come a dire, i diaconi, i sacerdoti non si perdano in esercizi retorici, parole inutili, ma portino l’annuncio con semplicità e sobrietà.

«Il telegramma porta l’annuncio per cui è stato mandato e, così, adempie la sua missione: suscita gioia, provoca a conversione, convoca per una missione, annuncia l’evento sperato. Annuncia l’essenziale, la verità che illumina tutte le cose, il senso di tutta la storia. In fondo, ha una sola parola da dire».

Infine, l’ultimo punto – forse, il più difficile da recepire – specie oggi. «Il telegramma, quando ha compiuto la sua missione, non serve più; non si conserva come fosse un gioiello prezioso, un’opera d’arte da ammirare, un oggetto di collezione. La spiritualità del telegramma comprende anche quell’arte del farsi da parte che evita di essere ingombrante, di imporre la propria presenza. Eseguita la missione, è necessario che si faccia festa per lo Sposo. Vive di una libertà dall’amor proprio e non si sente ferito se viene riciclato per altri messaggi e altri destinatari».

Questo il modello da imitare sull’esempio dei santi Arcangeli – Michele, Gabriele, Raffaele -, che si celebrano nella giornata delle Ordinazioni diaconali

«I nostri fratelli che si presentano per l’Ordinazione diaconale, dopo anni di preparazione e di discernimento, sono stati ritenuti pronti e adatti per essere annunciatori di un messaggio urgente per il nostro tempo che porteranno dove sono mandati, senza darsi importanza, lieti di servire alla gioia degli altri, lieti di condividere la speranza che è stata seminata in loro dalla promessa e dalla testimonianza di Gesù».

Poi, i gesti della Liturgia dell’Ordinazione diaconale, con l’“Eccomi”, il “Sì, lo voglio”, gli impegni degli Eletti, le Litanie dei Santi, l’Imposizione delle mani nel silenzio della Cattedrale e la preghiera di Ordinazione, la vestizione degli abiti diaconali, la consegna del libro dei Vangeli.

E, prima dell’applauso che suggella la gioia all’interno della Cattedrale e all’esterno (con u tifo quasi da stadio…), il “grazie” agli ormai Diaconi, alle famiglie, al Seminario e alle Comunità, arriva dall’Arcivescovo, che aggiunge: «Sapete che il Sinodo dei Giovani coinvolgerà anche me. La nostra Diocesi mi ha consegnato tante riflessioni, domande e aspettative. Ho pensato che sarebbe bello, per il Seminario, venire a Roma il 13 ottobre, così che io possa dire al Papa che ci sono tante parole, risposte da cercare, ma la risposta della Diocesi di Milano sono questi giovani che stanno facendo un discernimento serio».

Una “penitenza” per i seminaristi – andare a Roma -, la definisce il Vescovo: ma è evidente che non sarà così, anzi.

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