Nella seconda Domenica dell’Avvento ambrosiano, in Cattedrale sono state invitate le Corali provenienti da tutta la Diocesi a cui l’Arcivescovo ha voluto dire il suo grazie
di Annamaria
Braccini
Gli antichi messaggeri di Dio nella terra di Egitto che non possono tacere e noi, oggi, che siamo (o dovremmo essere) messaggeri della politica della speranza nella città, sull’esempio di uomini e donne di buona volontà, come coloro che hanno costruito l’Europa, che hanno creato ponti tra i popoli, che ha hanno vissuto una fede tenace anche in ambito politico.
Le Corali ambrosiane in Duomo
Nella seconda Domenica dell’Avvento ambrosiano – i “Figli del Regno” – il Duomo si colora di armonie musicali, di canti, della bellezza del pregare due volte, come diceva Sant’Agostino di chi, appunto, canta. Infatti, nel giorno che precede la memoria liturgica di santa Cecilia, patrona dei musicisti, in Cattedrale, vengono invitate le corali della Diocesi, tra cui quella di Arcore che, con il suo direttore Luca Scaccabarozzi, prende eccezionalmente il posto della Cantoria del Duomo.
Nel saluto iniziale, il responsabile del Servizio della Pastorale liturgica, monsignor Fausto Gilardi, sottolineando la numerosissima presenza degli animatori musicali – anche se molti di più avrebbero voluto partecipare, ma per il contingentamento non è stato possibile -, ringrazia l’Arcivescovo per la sua attenzione e ricorda «le tante risorse messe a servizio dalla Pastorale liturgica, anzitutto la passione e la competenza di don Riccardo Miolo», responsabile della Sezione musicale del Servizio stesso, che guida, dall’altare maggiore, i canti dell’assemblea, con un programma di brani appositamente studiato per l’occasione e che i membri della Corali seguono sullo spartito. E poi la scuola “Te laudamus”, avviata in quattro città della Diocesi, e l’impegno promosso per preparare la liturgia domenicale «Tutto questo ci permette di servire il Signore e portare gioia», conclude monsignor Gilardi.
A partire dalla prima Lettura, tratta dal libro del profeta Isaia al capitolo 19, e dalla pagina del Vangelo di Marco 1, prende spunto l’omelia dell’Arcivescovo.
L’omelia dell’Arcivescovo
«Possono tacere i messaggeri di Dio, se si trovano in un deserto e sembra che la loro voce lasci indifferente la città? Può tacere Giovanni, voce di uno che grida nel deserto?». Evidentemente no, soprattutto perché «il messaggio che il Signore affida ai suoi messaggeri non è solo una parola, ma una chiamata, la convocazione per una impresa da compiere nella storia, per una conversione. L’impresa da compiere si può chiamare quella politica della speranza che si azzarda a dare alle parole la forma di una città».
Chiaro il riferimento – con la definizione di Isaia, “Città del sole” -, al presente. «La politica della speranza non ha, in primo luogo, un programma di leggi e di organizzazioni, ma il riferimento al Signore. La Città del Sole non è una specie di immaginazione fantastica, una leggenda di Eldorado. È la città in cui il riferimento a Dio non è rinchiuso in qualche tempio inaccessibile, non è riservato a qualche momento marginale, ma ispira le scelte, offre un fondamento alla speranza, infonde il timore di Dio come senso del limite e vocazione al trascendimento della banalità e della rassegnazione. La profezia della Città del Sole non può essere sbrigativamente liquidata come una fantasia di altri tempi e di altri Paesi in cui non sia ancora arrivata la secolarizzazione. I messaggeri inviati dal Signore non impongono la loro religione, ma non rinunciano alla loro testimonianza e non possono tacere del rilievo pubblico della preghiera e della pratica religiosa come un bene comune».
Troppo facile, infatti, censurare la fede per le degenerazioni che, anche la religione, può conoscere alimentando il fanatismo, «così come la degenerazione che la scienza può conoscere per creare strumenti di morte non è una buona ragione per censurare la scienza».
Ma dove costruire questa città? «La politica della speranza costruisce la Città del Sole non solo in qualche isola separata dal mondo, ma in mezzo all’Egitto – come scrive Isaia – , il Paese straniero, la terra dove lo straniero è schiavo, dove la politica è un programma di opere grandiose costruito con lo sfruttamento di uomini e donne senza volto, che si contano come numeri e si usano come forza lavoro».
Così anche nella terra della schiavitù del popolo eletto, i nemici possono, allora, incontrarsi. «In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria. La politica della speranza costruisce strade, non per aggredire e conquistare, ma per comunicare. I popoli sono chiamati a incontrarsi nella fraternità. Le politiche imperialistiche che hanno seminato rovina e derubato gli sconfitti hanno scritto sentieri storti sulla faccia della terra. I messaggeri del Signore annunciano il tempo per raddrizzare i sentieri, preparare l’incontro, favorire la pace. È tempo di inaugurare la politica della speranza».
Un impegno preciso – questo – per tutti i credenti.
Il dovere per la Chiesa di fare politica
«L’accusa alla Chiesa di “fare politica” è una critica fondata se si intende per politica il prendere parte per un partito o per uno schieramento. Forse è più grave l’accusa di “non fare politica” se i cristiani per paura, per incompetenza, per il quieto vivere non praticano la politica della speranza, quel tenace costruire strade per l’incontro».
Da qui il richiamo all’iniziativa “Il Mediterraneo frontiera di pace”, svoltosi a Bari nel febbraio 2020 e all’evento di Firenze, sempre promosso dalla Cei nel prossimo febbraio, che vedrà la presenza di vescovi e sindaci del Mediterraneo e verrà concluso da papa Francesco il 27 febbraio. «Eventi – rimarca l’Arcivescovo – che danno evidenza a un popolo immenso che pratica la politica di speranza, costruendo incontri tra popoli. La gratitudine e l’ammirazione per molti uomini e donne di buona volontà, come i padri fondatori dell’Europa, come il sindaco La Pira (nel cui nome avrà luogo l’incontro del prossimo febbraio) incoraggiano noi tutti a continuare a essere messaggeri che esortano a preparare la via del Signore, la via della riconciliazione con Dio e tra i popoli. La politica della speranza ha bisogno non solo di propostiti e di competenze, ma anche di una gioiosa fiducia capace di sfidare le difficoltà senza arrendersi; capace di saper cantare, di condividere la gioia. Credo che i cori qui radunati e quelli di tutte le nostre chiese siano incaricati non solo di dare solennità alle celebrazioni, ma di trasmettere gioia, fiducia e la capacità di guardare questo tempo come tempo adatto per sperare».
Alla fine della Messa, la consegna simbolica, da parte dell’Arcivescovo, a un rappresentante di Corale per ciascuna delle 7 zone pastorali, della sua lettera rivolta agli operatori musicali con il titolo, “Cantate, cantate al Signore!”. «Poche pagine – conclude l’Arcivescovo – che ho scritto per incoraggiare a fare, per migliorare la qualità abituale del canto delle assemblee e per sottolineare che l’unico scopo del canto, nella liturgia, è di pregare e aiutare a pregare».