L’Arcivescovo si è recato in visita al Monastero Anba Shenuda, incontrando il vescovo anba Antonio e pregando con la sua comunità
di Annamaria
BRACCINI
Un momento molto atteso, un incontro fraterno, un segno di condivisione e di alleanza tra Chiese sorelle. La visita dell’Arcivescovo al Monastero copto Anba Shenuda di Lacchiarella è stato tutto questo, nei diversi momenti in cui si è articolata.
Accolto da Sua Eminenza anba Antonio – che il 2 ottobre era stato ospite presso il Palazzo arcivescovile – e da oltre 20 tra monaci e sacerdoti, l’Arcivescovo ha dapprima sostato in preghiera presso il santuario che accoglie le spoglie di anba Kirolos, metropolita della Diocesi cristiana copta di Milano e vicario papale per l’Europa, figura carismatica e molto amata, improvvisamente scomparso nell’agosto del 2017. Fu lui a fondare il Monastero – nato negli spazi di una cascina diroccata proprio per il suo instancabile impegno -, che dal 6 giugno 1998 è un punto di incontro spirituale per molte famiglie, con le quotidiane Divine liturgie e le funzioni sacre, ma anche con giornate organizzate per giovani e bambini. Una realtà oggi visitata da numerose scuole e comunità cattoliche. Poi la preghiera con il Padre Nostro recitato insieme nella chiesa principale Anba Shenuda del Monastero e la breve sosta nella più piccola cappella intitolata ai Monaci e alla Vergine Maria.
Il saluto di anba Antonio
«La sua visita per noi è un grande onore e una benedizione», dice anba Antonio nella grande sala riunioni, introducendo la riflessione spirituale che l’Arcivescovo – accompagnato dal responsabile del Servizio diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo, il diacono permanente Roberto Pagani – propone ai presenti, tra cui Samir Salama, uno dei primi collaboratori di anba Kirolos. «“È cosa buona e soave che i fratelli vivano insieme”. Da questo versetto del Salmo capiamo quanto sia importante vivere insieme nel Signore con la speranza di diventare una comunità fraterna e universale. Preghiamo in questo momento per gli ammalati, per chi ci ha lasciato, per chi soffre. Questo Monastero è il suo Monastero e le assicuriamo le nostre ferventi preghiere per il suo Ministero. I santi Padri monastici sono al cuore della nostra formazione e ci guidano», conclude anba Antonio.
La riflessione dell’Arcivescovo
«È la prima volta che, come Arcivescovo, compio questa visita, ma spero di poterne compiere altre, condividendo la fede e la cordialità dell’incontro fraterno», sottolinea l’Arcivescovo, ricordando «l’intensità della vita di questa Comunità».
La prima parola è «la gratitudine per quello che siete e che fate, ma anche una gratitudine antica, perché Milano ha ricevuto tante grazie dal monachesimo egiziano, che è sempre stato un patrimonio che abbiamo condiviso. Pensiamo ad Agostino, che ebbe come testo di riferimento la vita di Antonio il Grande scritta da Atanasio. Il Monachesimo eremitico, cenobitico e basiliano ha dato molto anche al monachesimo occidentale».
Il richiamo è all’oggi. «Percepisco questo momento, che stiamo vivendo a Milano, come un’aridità spirituale, perché l’emergenza sanitaria – un problema che preoccupa tutti noi – e l’emergenza sociale di molti, che vedono incerto il loro lavoro o l’hanno perso, che vedono un futuro difficile per sé e le proprie famiglie, portano a una forma di emergenza spirituale. Ciò significa porre una barriera alla voce dello Spirito, perché molte persone non riescono più a interessarsi ad altro che non sia la pandemia. A Natale sembra quasi che non si possa più parlare dell’incarnazione del Signore, ma solo preoccuparsi di cosa si potrà fare, dove si potrà andare, di come saranno i controlli…».
È quindi necessario – suggerisce il Vescovo – stabilire un’alleanza: «Il nostro modo di reagire a questa emergenza è quello di immergerci ancora di più in Dio, ricevendo la grazia che lo Spirito ci offre. Il mistero del Natale è che il figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo perché tutti possano diventare figli di Dio. Occorre essere alleati nella preghiera».
Lo spunto è dato dal recente Discorso alla Città (nella Basilica di Sant’Ambrogio, per l’occasione, erano presenti alcuni rappresentanti della Chiesa copta), con la vicenda del profeta Geremia che, pur trovandosi in carcere e in una situazione drammatica per Gerusalemme, compra un campo, cioè pensa al futuro. «Mentre tutto sembra ossessionato dalle notizie di ogni giorno e concentrato sul presente, lo spirito di Dio ci dice di pensare al futuro, non come una minaccia, ma come tempo di grazia e di missione, in attesa del ritorno del Signore. In questo guardare avanti siamo sollecitati a prenderci delle responsabilità. “Tocca a noi, tutti insieme” – il titolo del Discorso -, ciascuno secondo le sue disponibilità e responsabilità. Questo può diventare un percorso comune se abbiamo delle mète condivise, ritenendo che vi siano alcuni punti verso i quali sentiamo il dovere di convergere. Tale urgenza di farci avanti si fa particolarmente presente adesso, perché vediamo molti segni di fallimento, per esempio, delle grandi ideologie che hanno segnato il secolo passato. L’ideologia ha creato disastri annientando la persona in funzione di un progetto, come hanno fatto il comunismo e il nazismo, ma crea disastri anche l’individualismo, dove l’io diventa assoluto e ci si chiude agli altri». Come non pensare a papa Francesco che, in piazza San Pietro, la sera del 27 marzo scorso ci ha ricordato «che siamo sulla stessa barca e che nessuno può ritenersi sano in un mondo malato»?
«Questa terra di Milano e della Diocesi, è stata segnata dall’individualismo, ma la tradizione, l’“umanesimo milanese” non ha mai sentito come proprio l’individualismo estremo e l’ideologia. Questa terra non è terra di fanatismo: sente naturale la solidarietà, un senso del buon vicinato come condizione di vita buona. Resi saggi e umili, anche da questi fallimenti, vogliamo costruire una vita comune e una visione condivisa». Con alcuni punti fissi, come la ribadita «centralità della famiglia che è la cellula di ogni società e che deve essere oggetto di attenzione specifica anche da parte della politica». perché una famiglia malata genera una società malata. «In Occidente c’è un numero impressionante di divorzi, di separazioni, di violenza in famiglia, di persone che scelgono di rimanere single, la diminuzione delle nascite. Ciò ha conseguenze molto gravi su tanti giovani che, abbandonati nello sfasciarsi delle famiglie, rischiano di essere rovinati dalle dipendenze e dalla disperazione. Io so che voi avete amore per la famiglia e potete essere un particolare segno per le comunità in cui vivete».
E, ancora, «la vocazione alla fraternità tra i popoli e all’amicizia tra i popoli», come indica il Papa nell’Enciclica Fratelli tutti. «Le confessioni cristiane presenti a Milano hanno, da tempo, la convinzione della vocazione alla fraternità. Anche se non riusciamo a vivere una perfetta comunione, noi sentiamo di essere fratelli. La gioia di una fraternità che unisce, anche nelle differenze, è una metà da raggiungere per tutta una società che possa essere riconciliata. Il Sinodo minore “Chiesa dalle genti” ha dato delle linee per questo: una Chiesa in cui tutti i popoli che sono in questo territorio, da qualsiasi parte del mondo vengano, si sentano nella loro Chiesa. È la fraternità universale che ci permette di riconoscerci non concittadini o stranieri, ma semplicemente fratelli e sorelle».
Infine, l’ultimo “punto”. «Dobbiamo avere fiducia nelle risorse che abbiamo. Possiamo mettere mano all’impresa di aggiustare il mondo, non per presunzione, ma perché riconosciamo i doni ricevuti, ciò che la storia ci ha insegnato, quanto la nostra terra ci consegna come tradizione e patrimonio. Su tutto questo possiamo trovarci in sintonia».