Il Vescovo ausiliare, che fu il suo primo segretario a Milano, rievoca il giorno dell’ingresso, con quella camminata a piedi dal Castello al Duomo col Vangelo in mano: «Tra tanti aspetti mi piacerebbe ricordare il grande, raro “uomo spirituale” che è stato per tutti noi»

di Annamaria BRACCINI
da «Il Segno» - febbraio 2020

Il giovane don Erminio De Scalzi alle spalle dell’Arcivescovo durante il saluto alla cittadinanza in piazza Cordusio
Il giovane don Erminio De Scalzi alle spalle dell’Arcivescovo durante il saluto alla cittadinanza in piazza Cordusio

«Un ricordo vivo, indelebile». È quello che il vescovo ausiliare, monsignor Erminio De Scalzi, conserva dell’ingresso solenne in Diocesi dell’arcivescovo Martini. «Era una giornata invernale, fredda, per me la prima come segretario del nuovo Arcivescovo – racconta -. Fu un ingresso singolare: a piedi, dal Castello al Duomo, tra la gente che accoglieva con curiosità e affetto il suo Vescovo che camminava con il Vangelo tra le mani. A 40 anni di distanza il ricordo di un Vescovo che attraversa Milano con il Vangelo tra le mani è rimasto nella mente e nel cuore di tutti, quale icona che, più di ogni altra – a mio parere -, racconta l’azione pastorale del cardinale Martini».

«Quel camminare con il Vangelo in mano per le strade di Milano è proseguito per 22 anni e più – continua -. Questo lo ha reso un’indiscussa guida spirituale della Chiesa ambrosiana, un grande “maestro di Spirito”. I media lo hanno descritto come uomo del dialogo, del confronto con la modernità, come voce delle istanze più coraggiose e avanzate del Concilio. Tutte cose vere, ma mi piacerebbe che scoprissimo quel grande, raro “uomo spirituale” che Martini è stato per tutti noi».

«Non erano ancora trascorsi sei mesi dall’ingresso che l’Arcivescovo scriveva la sua prima Lettera pastorale La dimensione contemplativa della vita – prosegue De Scalzi -. Un “biglietto da visita” che diceva molto di lui e di quello che sarebbe stato per la Chiesa e la società di Milano. L’Arcivescovo chiedeva di sapersi staccare un po’ dalle urgenze e dall’affanno del quotidiano per ritrovare, nel silenzio orante, le dimensioni profonde del vivere umano e cristiano; in una parola, il primato di Dio. Sottolineava al termine della Lettera: “Ho scritto queste cose con la convinzione che la realtà più importante, a cui la preghiera ci deve orientare, è la carità. Questa è la mèta finale a cui siamo chiamati. Su questo la nostra Chiesa dovrà fermarsi a lungo. Ma mi è sembrato che in questo primo dialogo fosse necessario insistere sulle radici personali profonde di ogni nostro fare e di ogni nostro servizio alla gente, specialmente i più poveri”».

Monsignor De Scalzi torna al giorno dell’ingresso: «Ricordo un particolare lungo il tragitto che lo portava in macchina a Sant’Eustorgio. Mi chiese di mostrargli il carcere di San Vittore. Ne capii più tardi il motivo. Il 4 novembre 1981 iniziò proprio da questo luogo la sua prima Visita pastorale in Diocesi. Furono queste le sue prime parole nel carcere: “Da molto tempo avevo desiderato l’occasione di potermi incontrare con voi. È stato il primissimo desiderio che ho avuto entrando a Milano: l’automobile che mi conduceva nel centro della città è passata proprio qui vicino, sotto le mura di San Vittore. Mi è venuto spontaneo fare un gesto di benedizione e ho sentito subito il bisogno di potervi incontrare e conoscere personalmente ciascuno di voi. Voglio molto bene a ciascuno di voi e desideravo, nella mia povertà, e per il pochissimo che potevo fare, venire a dirvelo”. Da quel giorno furono tante le visite martiniane a San Vittore e l’Arcivescovo non mancò mai alla Messa del mattino di Natale. Tanti furono anche i suoi interventi sulla realtà del carcere, nella consapevolezza dell’inadeguatezza di misure semplicemente repressive, punitive».

Ma com’era la Milano degli anni Ottanta e quale “clima” si respirava? «Erano gli anni del terrorismo, che aveva come obiettivo quello di suscitare paura, approfittando della degenerazione della vita pubblica e civile per un’azione eversiva, rivoluzionaria – risponde De Scalzi -. Alcuni giorni dopo l’ingresso del nuovo Arcivescovo, vennero uccisi il magistrato Guido Galli e poi il giornalista Walter Tobagi. Furono tra i primi di una lunga serie. Diceva Martini: “Ricordo Milano come una città sofferente e provata, ma ricordo anche la sua capacità di reagire con determinazione e dignità. Sentivo viva in essa non solo la volontà di non rassegnarsi, ma soprattutto il desiderio di risollevarsi, di rispondere con un deciso no alla violenza. Milano dimostrava di saper affrontare con coraggio la sfida dell’odio senza ragione e di volerla vincere”. Interessante fu una lettera che un cittadino milanese gli inviò in occasione del suo ingresso: “Milano è una città meravigliosa e terribile: tenera nel donarsi, crudele nell’imporre ritmi e sistemi di vita. Qui si spara ogni giorno, ma si compiono anche grandi atti di amore; si bestemmia la vita, ma maggiormente si prega e si loda Dio. È una città viva, aperta, giovane, che ha bisogno di una mano forte e tenera allo stesso tempo e di un ‘linguaggio nuovo’ anche se in realtà vecchio di 2000 anni”. A questa città Martini seppe voler bene e parlare con un “linguaggio nuovo”. Emblematico fu l’episodio della consegna delle armi in Arcivescovado, segno di stima e considerazione dell’Arcivescovo e del lavoro da lui svolto come “interlocutore instancabile”, dedito alla pacificazione della città attraversata da tanti episodi di terrorismo e popolata da tante nuove povertà».

E sull’eredità di Martini il suo primo segretario non ha dubbi: «Ha preso sul serio quanto scriveva la Dei Verbum nel Concilio Vaticano II al capitolo 6: “Ogni cristiano deve acquistare una familiarità orante con la Sacra Scrittura”. Ha insegnato a tutti a prendere confidenza con la Parola di Dio, a renderla ispiratrice del vivere collettivo e del destino di ciascuno. Per esprimere ciò, che più di ogni altra cosa gli stava a cuore nella vita, non trovo parole migliori di quelle che lui volle fossero incise sulla sua tomba: “Lampada per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino” (Salmo 118). Ci ha insegnato un metodo per accostare la Parola: anzitutto l’ascoltava, si lasciava interpellare dalle sue provocazioni e la provocava con domande attuali per ascoltare che cosa avrebbe risposto».

«Nella sua ultima Veglia in traditione Symboli in Duomo – conclude – lasciò ai giovani questa consegna: “Sostenete il primato della Parola di Dio e custodite la Bibbia nel cuore, ve la affido come il dono più bello: nella mia vita la Bibbia mi ha sempre accompagnato nella gioia e nel discernimento, nella preoccupazione e nella speranza, e sempre mi accompagnerà”».

 

Ti potrebbero interessare anche: