Sulla scia dell’esempio della prossima beata Armida Barelli, questo l’auspicio dell’Arcivescovo nell’incontro in Cattolica che ha aperto la serie di eventi per la Giornata dell’ateneo. Monsignor Delpini ha parlato anche della guerra: «Spero che qualcuno, a livello di responsabilità internazionale, si faccia carico di questo dramma»
di Annamaria
Braccini
È l’Arcivescovo, anche nella sua veste di presidente dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo, ad aprire il primo della serie di tre incontri promossi dall’Ente e dall’Università Cattolica, in vista della 98esima Giornata per l’Università stessa, intitolata «Con cuore di donna», che verrà celebrata il 1° maggio, in stretto collegamento, non solo temporale, con la beatificazione il 30 aprile di Armida Barelli (info: www.giornatauniversitacattolica.it). Significativo, inoltre, che proprio nella Festa della donna, l’Arcivescovo parli (ma non solo) di una donna – appunto la futura beata – intervistato da una giornalista, Elisabetta Soglio del Corriere della Sera.
L’esempio della Barelli
A portare il saluto dell’Ateneo – presenti i vertici dell’Università e dell’Istituto, l’assistente ecclesiastico generale, monsignor Claudio Giuliodori – è la prorettrice vicaria, Antonella Sciarrone Alibrandi, che dice. «Anche nel frangente drammatico che stiamo vivendo, Armida viene sentita un esempio anche per come invitava a riflettere sui due conflitti mondiali, che visse nella sua esistenza, con uno sguardo di fede, di consapevolezza e di carità. Fu una donna di straordinaria modernità che si è spesa in tutta la sua vita, non priva di ostacoli e sofferenze, per la realizzazione di istituzioni volute con una fede profondissima, coniugando ragione e fede, affetti e intelletto».
Si parte, poi, con le domande e le risposte dell’Arcivescovo.
La missione dell’Università
«La cultura – osserva monsignor Delpini – è una missione, la competenza è uno strumento, un modo per essere attrezzati ad affrontare i vari ambiti lavorativi. La cultura pone delle domande perché cerca i criteri di discernimento, valuta quello che si può fare in rapporto al bene comune. L’enfasi sulla competenza ha prodotto una scelta triste: competenza altissima, ma non per trovare risposte al perché si fanno le cose. La risposta è una visione del mondo, un umanesimo che dica le mète che meritano di essere perseguite. La Cattolica, in questo senso, non solo è un servizio, ma una missione che può insinuare quella inquietudine che evita il rischio di creare esperti che siano solo utili al sistema». Insomma, il compito è offrire risposte, ma anche domande su cosa sia giusto o meno fare:
«Ogni competenza è buona se offre una speranza, se è finalizzata al bene comune, facendosi così, umanesimo cristiano», sottolinea l’Arcivescovo interrogato da Soglio su come vivere «un umanesimo della speranza più volte ribadito da papa Francesco, specie rivolto ai giovani».
L’umanesimo della speranza
«C’è una voce che chiama. La speranza non è solo una buona intenzione. È la voce di Dio che interpella ciascuno a vivere una vita che merita di essere vissuta. La speranza è suscitata dalla promessa da parte di Dio che vi sia una missione da compiere, una felicità da desiderare. Però – non si nasconde l’Arcivescovo – ci sono anche altre voci che chiamano, come i gemiti dell’umanità che invocano aiuto. Dunque, l’umanesimo della speranza è anche la provocazione dei nostri fratelli e sorelle che gemono e chiedono una consolazione. La nostra vocazione è di essere fratelli tutti. Noi viviamo di una risposta, perché chiamati da Dio a essere felici e dai fratelli a rendere abitabile il mondo».
La guerra
Il pensiero va, ovviamente alla guerra in corso: «Questa situazione che viviamo turba tutti noi. Devo confessare che mi lascia smarrito l’idea che ci siano migliaia e migliaia di persone che si alzano al mattino per fare la guerra, andare a sparare, magari gente che venera le stesse icone, che prega lo stesso Dio. È un’umanità che porta sull’orlo degli inferi. Un vescovo può solo invitare a pregare, a incoraggiare la solidarietà con le vittime, sperando che qualcuno si faccia carico di questo dramma a livello di responsabilità internazionale».
Tra tanto smarrimento e tristezza, Armida Barelli è come una luce luminosa, nota la giornalista.
Barelli e le donne di oggi
«Armida è una figura molto interessante, di grande forza e che mi colpisce – spiega monsignor Delpini -. Aver svolto un ruolo così determinante in Università Cattolica, nella Gioventù femminile, mobilitando numeri strabilianti, ci dice di una sua capacità di convocazione che lascia stupefatti. Quello che fa la forza della Barelli è la sua fede, la sua relazione con il Signore che la convince che ha una missione da compiere. Questo è l’elemento determinante in cui inserire anche gli incontri con padre Gemelli, con il Papa, e la scelta di fondare un Istituto secolare, come le Missionarie della Regalità di Cristo. Un altro aspetto interessante è la promozione di una cultura popolare che fosse accessibile anche alle donne. Diceva, per esempio, “spose e non serve”, comprendendo quanto fosse necessario responsabilizzare a un protagonismo nella società per cui le donne dovevano essere “come delle locomotive, non dei vagoncini”, per usare una sua espressione. Credo che anche in ambiente politico temesse una mascolinizzazione, e intendesse salvare una specificità femminile, ritenendo le donne una forza equilibratrice, specie in momenti di scontro sociale».
Ma questo genio femminile, come lo chiamava San Giovanni Paolo II si è realizzato e si sono fatti passi avanti? «Penso – dice ancora l’Arcivescovo – che vi siano stati passi molto significativi, ma il cammino, che non è senza ostacoli, è ancora lungo, perché la società nel suo complesso sia un luogo dove è desiderabile abitare sia per uomini sia per le donne. Le esperienze di degrado, i femminicidi, le discriminazioni dicono che ci sono ancora molte cose da fare». Il compito? «Le donne devono essere una presenza costruttiva totale che sia propositiva, che si proponga dei percorsi. Quello che oggi non si vede è la capacità di convocarsi per essere una voce corale capace di essere incisiva, non perché si contrappone a qualcosa o a qualcuno, ma perché si propone. Certamente, questo riguarda anche il compito educativo, forse meno facilmente eseguibile oggi che anni fa.
La responsabilità del Toniolo
«Io, come presidente, mi sono proposto di esplicitare il fatto che questo Ateneo sia l’Università dei cattolici italiani in collegamento con la Chiesa italiana, non un’istituzione accademica che ha comunque un suo prestigio per come è bene organizzata. Qui si offre un pensiero e un miglioramento delle convinzioni condivise, pensiamo per esempio alla riflessione che si sta sviluppando sul ruolo sociale della finanza e che coinvolge anche la Diocesi, o all’Osservatorio giovani del Toniolo, capace di offrire analisi e documentazione molto apprezzate. Rimango persuaso che la generazione adulta debba dare una speranza e non solo spingere avanti i giovani. Non ci mancano le risorse, le competenze, il voler bene a questi ragazzi, ma si tratta di dire verso dove devono andare, comunicare loro la metà che vale la pena di essere perseguita. Se uno non sente che la sua vita è una vocazione, come può interpretarla? Se si pensa di andare solo verso il nulla, in una sorta di parcheggio o di enigma incomprensibile, perché diventare adulti? Dobbiamo dire che la vita merita di essere vissuta perché è una promessa».