Nella Celebrazione della Passione e Deposizione del Signore, in Duomo, l’Arcivescovo ha indicato il significato del grido estremo di Cristo. «Commossi dalla lettura di questa Passione diciamo anche noi il nostro “amen”»
di Annamaria
Braccini
Il grido di Gesù che muore in croce, mentre nella Cattedrale ogni luce si spegne e calano le tenebre, è lo stesso, ieri sul Golgota e oggi a Milano come in ogni parte del mondo. Grido estremo, forse mai compreso a pieno, che interroga i credenti nel Risorto.Così suggerisce l’Arcivescovo che presiede la Celebrazione della Passione e delle Deposizione del Signore in un Duomo dove trovano posto i tanti fedeli che partecipano al Rito, sentitissimo dalla gente.
«Che cosa grida Gesù come ultimo grido nel momento estremo? Quale grido è così potente da squarciare il velo del tempio, da far tremare la terra, da scoperchiare i sepolcri e far risorgere i morti?», chiede monsignor Delpini.
«Grida “Amen” – cioè “Sì” -: voglio sacrificarmi per questa gente che mi insulta, voglio amare anche i miei nemici, dare la vita per questa gente mediocre, per questi uomini incapaci di costanza, per queste persone che non hanno stima di sé».
Mentre proprio Gesù che per noi muore, ne ha tanta, desiderando che «coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte sentano che l’amore di Dio li raggiunge anche là», abbattendo le porte degli inferi e traendo «alla luce, alla vita e alla gioia».
Per questo Cristo dà la propria vita, «per le donne e gli uomini di tutti i tempi, condividendo il soffrire perché nessuno mai, quando soffre, si senta abbandonato e solo».
Così dice il Signore con l’ultimo grido di chi è venuto non per essere servito, ma per servire, di colui che si sacrifica piuttosto che sacrificare gli altri.
È Cristo stesso, sulla croce che pare dirci: «mi consegno al disprezzo di coloro che rivolgono a me il loro sguardo perché possano finalmente vedere come da questa morte venga a loro la vita; mi consegno alla solitudine perché tutti i figli di Dio, che erano dispersi, possano riconoscere un luogo in cui convergere e fare un’unica Comunità. Voglio morire in solitudine per radunare insieme tutti i figli di Dio». Quel Padre a cui Gesù è stato fedele anche a costo della vita, data, appunto, perché altri la possano avere.
«Forse, allora, coloro che ascoltano il grido estremo – noi, commossi dalla lettura di questa Passione – potremmo iniziare a capire quanto è preziosa la nostra vita, cominciare a essere come i giusti che, risvegliati, rialzano il capo, uscendo dai sepolcri e dalle depressioni per rispondere alla propria vocazione, dicendo il nostro “amen”», conclude l’Arcivescovo.
Tutta la vita, e anche la nostra morte, infatti, si riassumono in quel “sì” che testimonia la fede autentica nella morte e risurrezione del Signore.
Fede da vivere con lo stesso atteggiamento cantato nel “Caligaverunt” e nell’adorazione della Croce, che in Duomo viene portata in processione dall’ingresso fino all’altare maggiore con le soste in cui fedeli elevano, in ginocchio, il “Venite, adoriamo”. Fede confermata nella preghiera universale – la più solenne dell’anno liturgico, con le sue undici orazioni che paiono abbracciare il mondo intero, dal Papa alla Chiesa, dai fratelli maggiori ebrei ai cristiani di tutte le Confessioni, da chi non crede ai governanti e ai defunti -, per arrivare, infine, al ricordo della Deposizione del Signore che guida a contemplare la scena della sua sepoltura. Quando, alla conclusione, con le due letture dal profeta Daniele e, ancora, con la continuazione del Vangelo di Matteo tra le navate scende il silenzio e viene velata la Croce.