L'11 novembre convegno alla Statale. Don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto dei Tumori: «Si pensa siano riservate solo a chi è vicino alla morte, ma non è così. La relazione è un aspetto fondamentale del “prendersi cura”»

di Annamaria Braccini

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Confrontarsi a tutto campo per affrontare una sfida, anche culturale, che bisogna vincere: quella delle cure palliative. Se ne parlerà all’Università degli studi di Milano giovedì 11 novembre – appunto Giornata nazionale delle Cure palliative – con l’intervento di diverse voci qualificate. Don Tullio Proserpio – cappellano dell’Istituto nazionale dei Tumori, ente tra i promotori dell’evento – osserva: «Credo che sia importante riconoscere la disponibilità della Chiesa a entrare in sinergia con il mondo clinico e sanitario, al fine di portare il proprio contributo, dal punto di vista umano, a questa particolare cura che contempla la persona nella sua integralità. Un dialogo a cui la Chiesa partecipa attivamente e in cui è stata coinvolta anche l’Università».

Per quale ragione?
Se vi è un gap, nell’ambito delle cure palliative, è proprio quello della formazione. Infatti, per molti anni e, in parte anche oggi, le palliative sono state viste come riservate solo a persone che si avvicinano alla morte, ma non è così. L’obiettivo è di mettere attorno al medesimo tavolo alcuni rettori di Università italiane per ragionare su questo aspetto particolare.

Don Tullio Proserpio

Le terapie palliative sono considerate marginali?
Ciò che convince i pazienti è una cura che si prenda realmente cura di loro. Il “Drg” (“Raggruppamento Omogeneo di Diagnosi”, sistema che permette di classificare i pazienti dimessi da un ospedale per valutare la spesa complessiva attraverso gruppi) privilegia l’aspetto economico, ma vediamo come la pandemia abbia fatto emergere la mancanza della relazione. Anche se la legge afferma che la relazione costituisce un vero tempo di cura, chi la riconosce come essenziale anche dal punto di vista economico? Qui entra in gioco la disponibilità della Chiesa ad accompagnare il malato laddove i clinici o gli infermieri incontrano maggiori difficoltà.

Si può essere ottimisti riguardo al futuro del «prendersi cura»?
Direi di sì, ma faccio fatica a credervi, se non si riuscirà a convincere che una relazione di tipo umano produce un guadagno anche per le strutture ospedaliere. Come dimostra uno studio di qualche anno fa, la denuncia della cattiva sanità, molto spesso, è pregiudicata da una cattiva relazione vissuta fin dall’inizio dai malati e dalle famiglie, che non si sentono accompagnate e sostenute. Se si ragionasse non solo nell’immediato e in termini economici, ci sarebbe un guadagno per tutti, perché diminuirebbero le cause legali e, soprattutto, si potrebbe promuovere un autentico prendersi cura.

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