Il parroco don Luca Violoni racconta l’esperienza di accoglienza di una coppia di profughi, che in Italia vivevano in luoghi diversi: grazie alla disponibilità di un immobile parrocchiale si sono ricongiunti e a maggio avranno una figlia. «La comunità ha plaudito a questa scelta. Le buone prassi aiutano la gente a superare perplessità e paure»

di Annamaria BRACCINI

Violoni e profughi nigeriani

«Ci siamo sentiti provocati dall’appello che ha lanciato il Papa all’inizio di settembre del 2015, chiedendo a ogni parrocchia di accogliere una famiglia di profughi. Ci è sembrato davvero impossibile non rispondere per quello che potevamo, anche perché è una richiesta giusta, vera e, a nostro giudizio, necessaria»: don Luca Violoni, parroco della Prepositurale di San Giuliano Milanese e decano di San Donato, spiega così la decisione di accogliere una famiglia nigeriana.

Vi siete attivati a livello decanale o parrocchiale?
Abbiamo provato a verificare se in tutto il nostro Decanato fosse possibile che ogni parrocchia si aprisse a una tale accoglienza, ma alcune realtà hanno avuto qualche difficoltà. San Giuliano Martire, di cui sono parroco, possiede alcuni appartamenti destinati in affitto soprattutto a persone che si trovano in situazioni delicate; si è quindi deciso di non locarne uno e di offrirlo a questa famiglia. Quindi ci siamo subito messi in moto, stipulando un accordo con la Cooperativa Farsi Prossimo di Caritas ambrosiana e mettendo a disposizione il nostro immobile. Dopo l’iter burocratico – sempre un po’ complesso, ma necessario -, siamo arrivati al risultato che ci eravamo prefissi. Per noi è stata una grande soddisfazione, anche se siamo consapevoli di aver dato solo un piccolo segno, ma – ripeto – un segno necessario. Attualmente accogliamo una famiglia formata da due giovani sposi nigeriani con una bimba in arrivo in maggio: una famiglia nascente in tutti i sensi.

Ci sono state difficoltà da parte della gente e nel territorio della parrocchia? Avete registrato disponibilità o paura?
Personalmente ho l’impressione che la gente, quando si parla di stranieri, migranti e profughi, abbia in generale molte perplessità perché ogni giorno viene bombardata da messaggi mediatici che mettono in guardia o all’erta, se addirittura non diffondono vera e propria paura e allarme. Tuttavia, quando si passa dalle categorie – diciamo così – “ideologiche” ai volti concreti di donne e uomini che mangiano, vivono, soffrono con noi facendo un percorso comune, la gente assume un altro atteggiamento. Credo che vi sia un assoluto bisogno di realizzare “buone prassi” che aiutino il nostro popolo a superare soprattutto i timori che coltiva dentro di sé.

Avete presentato la famiglia alla comunità e spiegato il senso della scelta di ospitarla?
Sì, lo abbiamo fatto durante la Messa della Festa della Famiglia e, alla fine, sono felice di dire che i fedeli hanno applaudito in modo totalmente spontaneo. Molti, poi, dopo il pranzo comunitario con loro mi hanno confidato: «È un gesto bello perché non solo apriamo le porte, ma diamo la possibilità di un ricongiungimento familiare». Infatti i due coniugi, arrivati circa un anno fa in Italia scappando da condizioni molto dolorose, erano stati accolti in luoghi diversi e, dunque, potevano vedersi raramente. Ora è una gioia pensare che abbiano una casetta, seppure piccola, solo per loro e la bimba che nascerà.

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