Don Fabio Fossati, cappellano del carcere di Bollate: «L’unico modo per pentirsi davanti a Dio è comprendere ciò che si è fatto»
di Soraya
Galfano
Don Fabio Fossati è dal 2005 cappellano del carcere di Bollate, Comune alle porte di Milano: un percorso, dice, «avvenuto per volontà di Dio, come accade tutto quanto. Sono entrato in Seminario nel 1988, avevo diciassette anni e da lì in poi ho sempre avuto amici cappellani, il loro operato mi ha sempre incuriosito e affascinato. Nel 2003 il cappellano di Bollate faceva fatica a star dietro a tutti i detenuti del carcere, così mi sono proposto come volontario. Dal 2005 il mio servizio è diventato effettivo».
Quindi Bollate ha due cappellani?
Sì, ogni 800 detenuti serve un cappellano. Bollate a oggi, se non sbaglio, ne conta circa 1300.
Spesso si sente parlare di Bollate come di un carcere d’eccellenza rispetto ad altre realtà del nostro Paese. Qual è la sua differenza?
Questo carcere è nato con l’idea di mettere in pratica quanto scritto nella nostra Costituzione e ha avuto una spinta propulsiva pazzesca. Purtroppo, a oggi, gli effetti del Covid-19 si vedono anche sulla realtà carceraria. Con la pandemia i detenuti non potevano uscire dalle proprie celle e non era loro permesso di effettuare i colloqui in presenza con i familiari. Anche ora le celle dell’infermeria sono chiuse. Questa situazione ha inasprito molte realtà già difficili di per sé. Bollate, però, grazie alla spinta dei suoi amministratori e memore delle sue origini, ha fatto di tutto per venire incontro alle esigenze dei detenuti, come per esempio aumentare il numero di colloqui telefonici da 10 minuti ciascuno una volta a settimana a 10 minuti ciascuno tutti i giorni. Sono inoltre stati favoriti sistemi quali email e video-chiamate.
Qual è il suo compito?
Mi occupo di favorire il benessere di ciascun detenuto, cercando di aiutare dove posso, per esempio mantenendo vivi i contatti con la famiglia di origine o aiutando la persona a concepire la propria responsabilità in merito al crimine commesso. Se dovessi dirla in modo più complesso, direi che mi occupo della crescita spirituale dei detenuti.
Nelle carceri, così come nella società odierna, vige il pluralismo religioso. Riesce a lavorare bene con ogni detenuto?
A Bollate sono presenti, oltre ai cattolici, numerosi ortodossi, tanti musulmani e alcuni pentecostali. Laddove c’è apertura e sincera voglia di confronto, si riesce bene a lavorare con chiunque. Con gli ortodossi abbiamo anche cercato di trovare un padre ortodosso, ma ahimè non c’è nessuno che ad oggi si sia assunto il compito di farlo in modo continuativo. Quelli con cui riscontro più difficoltà sono i pentecostali perché, a mio parere, hanno interpretazioni molto estremiste della Bibbia, ma anche qui varia da soggetto a soggetto.
Gli appartenenti alla criminalità organizzata spesso si presentano come dei fedeli devoti. Qual è la sua esperienza con loro?
Faccio una premessa: Bollate non ha la massima sicurezza. Quindi io non ho mai avuto a che fare con i cosiddetti “irriducibili”. Gli appartenenti alla criminalità organizzata che ho conosciuto sono tutti soggetti che hanno alle spalle già una trentina d’anni di carcere. Molti di loro fanno quello che chiamo “passo in più”, riescono cioè a scindere la fede dal sentimento religioso e capiscono che l’unico modo per essere figli di Dio è quello di pentirsi. Quando un detenuto richiede il sacramento della Riconciliazione, lo affido a volontari che leggono con lui il Vangelo, lo commentano e lo aiutano a capire di cosa deve pentirsi, la confessione vera e propria avviene solo dopo qualche mese, quando nella mente del detenuto è tutto più chiaro.
Qual è secondo lei il più grande problema del sistema carcerario italiano?
L’unico modo per pentirsi davanti a Dio e davanti agli uomini è quello di comprendere ciò che si è fatto e prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Il carcere non aiuta la responsabilizzazione dell’individuo perché, dal momento in cui lo si priva di tutto, egli subisce passivamente la punizione e non riesce a fare altro.
Se potesse chiedere a Dio di portare qualcosa del carcere al mondo esterno, cosa sarebbe?
Il tempo, senza dubbio il tempo. La realtà carceraria regala ai detenuti molto tempo libero e quando sei solo, dopo un po’ sei costretto a fermarti e parlare con te stesso, riflettere, porti delle domande… Noi che abbiamo il dono della libertà vogliamo aver sempre più tempo libero e quando lo otteniamo alla fine lo utilizziamo per il disbrigo di altre faccende. Siamo fagocitati dalla frenesia.