Don Virginio traccia un bilancio dell’istituzione voluta dal cardinale Martini nel 2002: «Abbiamo sempre coniugato accoglienza e cultura, ora vogliamo coltivare speranza restando fedeli ai principi della gratuità e dell’accoglienza»
di Annamaria
BRACCINI
«Un grande dono». Così don Virginio Colmegna, anima della Casa della Carità di cui è stato alla guida fin dall’inizio, per volere del cardinale Martini, parla di questi 20 anni di impegno nella sua veste di presidente della Fondazione. «Sì – spiega -, fu un grande dono, davvero, la scelta di Martini di aprire uno spazio “per i più sprovveduti”, come li aveva chiamati, capace di diventare un luogo dove fare intravedere la sapienza e l’eccedenza della carità».
Per lei personalmente cosa ha significato vivere la quotidianità della Casa?
Ha voluto dire crescere. Tante volte si parla dei poveri, ma qui ho potuto vederli in tutti i loro aspetti, vivendo la gratuità e l’ospitalità con una dimensione familiare. Ho riscoperto il bisogno di pregare nella nostra piccola cappella interna, di orientarmi, di chiedere «Dio, dove sei?», una domanda forte in questo periodo. Dalla Casa sono transitate persone di più di 93 nazionalità, anche se adesso arrivano anche tanti italiani, in maggioranza anziani. Da qui dobbiamo ripartire con vivacità spirituale, culturale, con le tracce che possiamo lasciare nella politica con la “P” maiuscola.
Con che spirito il cardinale Martini volle la Casa della Carità?
La logica era quella della quotidianità, della bellezza, del dare gioia. Non dimentico il cardinale Tettamanzi: anch’egli ha dato tanto in questo senso. Penso alle due icone bibliche che ci hanno lasciato: Martini scelse l’immagine di Genesi 18 delle querce di Mamre, l’ospitalità; Tettamanzi la parabola del Samaritano. Ci disse allora: «Tutti si ricordano del sacerdote, del levita, del samaritano, del malcapitato, ma si dimenticano dell’oste. Questa deve essere una locanda» con il senso di un’accoglienza piena di futuro, perché il samaritano dice: «Ti rifonderò al mio ritorno». Anche il cardinale Scola ci è sempre stato vicino e monsignor Delpini, poi, è venuto da noi quando aveva in tasca, per così dire, la nomina ad Arcivescovo e non lo sapeva nessuno. Ci ha accompagnati nell’ultima opera che stiamo generando, «Speranza oltre noi», per i disabili.
Come sono cambiati i bisogni, a Milano, in questi anni?
Sono mutati soprattutto negli ultimi 5 anni. Il lockdown ci ha attraversati in profondo e abbiamo scelto di accompagnare gli ultimi degli ultimi. C’è una povertà forte, che spesso si dimentica: quella che definirei della solitudine. Nell’esame di coscienza della sera ho imparato a ricordare, i volti, più che i nomi. Dobbiamo superare l’assistenzialismo: non si tratta di essere un buon elemento di protezione – guai se non aiutassimo con competenza -, ma c’è la necessità di pensare a come riportare al centro del dibattito civile il tema della giustizia nei diritti.
Perché avete voluto coniugare, da subito, accoglienza e cultura?
I poveri hanno fame di cultura, anche perché spesso diventano un anonimato generico, mentre magari chi aiuta al bar è laureato. La Biblioteca di Confine, che abbiamo ripreso dopo il lockdown, ha oltre 1000 abbonati, ed è stato un presidio fondamentale dove è emersa la solidarietà nel quartiere. Andare a scuola dai poveri significa diventare culturalmente più capaci di capire.
Come vede il futuro della Casa?
Prima ancora che iniziasse il lockdown lanciai la riflessione «Regaliamoci futuro», perché occorre essere coltivatori e suggeritori di speranza. Vedo il futuro di Casa della Carità ostinatamente fedele al principio della gratuità, dell’accoglienza, dell’ospitalità, partendo dagli ultimi, attraverso un rimando a una Chiesa sinodale e conciliare.
Ricorda qualche momento particolarmente bello o, magari, complesso di questi 20 anni?
Tutti i momenti sono complessi: l’importante è non scoraggiarsi. Preferisco ricordare i tantissimi momenti belli che abbiamo vissuto, soprattutto quelli in cui c’era Martini, ma anche giorni semplici di quotidianità e di festa, come il Natale. L’ultimo momento, in ordine di tempo, è stata la scelta di dipingere un murales su una nostra grande parete e una porta, immaginando la porta di Lampedusa. Inaugurandolo ho visto in tutti una felicità interiore.
Leggi anche: