Ha iniziato ad accogliere famiglie con figli con disabilità il villaggio realizzato dall'associazione SON presieduta da don Virginio Colmegna: «Vogliamo cambiare la narrazione della fragilità portandola verso una dimensione di speranza»
di Generoso
SIMEONE
Un villaggio di abitare solidale, nato per ospitare famiglie con figli con disabilità e aperto allo scambio con il territorio. Ma anche un luogo di animazione culturale e spirituale. È questo il senso di «Abitiamo il futuro», il progetto promosso dall’associazione SON, Speranza oltre noi, realtà nata nel 2017 dall’iniziativa di alcune famiglie accomunate dalla fragilità dei propri figli e dalla preoccupazione per il loro futuro. Tra i soci fondatori anche don Virginio Colmegna, che due mesi fa ha assunto la presidenza.
Dopo la fine dei lavori di costruzione, «Abitiamo il futuro» è stato inaugurato nell’ottobre del 2022 e da gennaio di quest’anno ha iniziato ad accogliere. Come sta andando?
Abbiamo messo in moto le prime ospitalità e ci siamo aperti all’ascolto di tante situazioni. Veniamo a contatto con casi difficili, segnati da molte complessità. Stiamo cercando di diventare punto di riferimento per queste famiglie, anche se non riusciremo ad accoglierle tutte. Il luogo qui è molto bello, ha spazi di socialità e condivisione e vorremmo renderlo una risorsa, anche grazie alla vivacità e alla creatività dei volontari che vi operano.
Qual è la specificità di SON?
Il progetto si basa sulla tematica del “Dopo di noi”, cioè la preoccupazione dei genitori per il futuro dei propri figli con disabilità. Da subito, abbiamo voluto trasformare il “Dopo di noi” in “Durante noi”, cioè creare una forma di abitare comunitario dove i figli iniziassero a sperimentare una certa autonomia avendo i genitori ancora in vita. Tuttavia gli eventi ci hanno superato perché, nel frattempo, sono mancati un figlio e una mamma di due delle famiglie fondatrici. Questo ci ha fatto rivedere alcune progettualità, ma non le idee di fondo. SON considera la disabilità oltre il pietismo e l’assistenzialismo e come occasione per sentirsi parte di una comunità sociale ed ecclesiale, essendo allo stesso tempo soggetto promotore di cultura e diritti.
Quali sono i progetti che state portando avanti?
Lavoriamo per mettere insieme chi si occupa di “Dopo di noi” da un punto di vista non solo legislativo, ma anche culturale, perché vogliamo cambiare la narrazione della disabilità portandola verso una dimensione di speranza, di fiducia, di futuro. Nello specifico, collaboriamo con la Consulta diocesana ‘Comunità cristiana e disabilità’, con Ledha, con Cbm Italia in varie iniziative, che prevedono anche il coinvolgimento delle scuole. Inoltre, è forte il legame con Casa della carità, che dista a poche centinaia di metri, e con la quale condividiamo la complessità che avvolge i bisogni di chi si trova in una condizione di fragilità.
Che cosa vi chiedono le famiglie che si rivolgono a SON?
Vogliono sentirsi accompagnate nella condivisione delle loro difficoltà. Non chiedono la cura come prestazione o come mestiere, ma come partecipazione di una presa in carico. Noi qui condividiamo l’abitare, non eroghiamo servizi. Diventa determinante la dimensione conviviale. In questi giorni c’è un gran daffare per organizzare una festa di compleanno. Sono aspetti importanti, di spontaneità, in cui crediamo fortemente.
Per don Colmegna cosa significa essere presidente di SON in questa fase della vita?
Qui ritrovo il senso di quel «magistero della fragilità» richiamato da papa Francesco. Come prete sento una ricchezza che mi fa cogliere il bisogno di comunità di questi ragazzi, nel loro non volersi sentire solo come portatori di bisogni, ma come soggetti attivi dentro una comunità.