Affidate dall'Arcivescovo ai partecipanti alla celebrazione penitenziale in Duomo: manifestare vicinanza a confratelli anziani e malati, mostrarsi generosi nell'offerta all'Opera Aiuto Fraterno ed essere uomini e maestri di preghiera
di Annamaria
BRACCINI
Tre indicazioni, tre modi «per rendere amabili i rapporti nel presbiterio», tre azioni da realizzare entro Pasqua. Sono quelle che l’Arcivescovo indica ai più di 500 sacerdoti riuniti in Duomo con religiosi e diaconi permanenti, per la celebrazione penitenziale per il clero, dal 2016 ormai tradizionale.
La celebrazione si è articolata attraverso l’ascolto della Parola Dio, la preghiera, i canti – eseguiti per l’occasione da giovani sacerdoti diretti da don Riccardo Miolo – il raccoglimento, vissuti nei passaggi della Confessio laudis, l’esame di coscienza affidato a monsignor Calogero Marino, vescovo di Savona-Noli, la Confessio vitae con la confessione individuale, cui sono seguite due testimonianze e, infine, il momento dell’Actio, con la penitenza scelta dell’Arcivescovo. Che lascia appunto tre consegne. In primis, «come dare una gioia particolare a tre confratelli, magari anziani o malati, ospiti di qualche struttura o con i quali si è avuto qualche contrasto». Magari, non arrivare a mani vuote, ma con le migliori bottiglie di vino, che si posseggono, per donarle.
Secondo gesto, «essere generosi nell’offerta della Messa Crismale a favore dell’Opera Aiuto Fraterno» e, poi, la raccomandazione di essere uomini e maestri di preghiera. «Vi chiedo, dunque, di promuovere – sottolinea l’Arcivescovo – la diffusione del sussidio Vivo con te. Il libro della nostra preghiera». Una proposta per tutti i fedeli, contenente la preghiera popolare dei fedeli, «uno strumento che auspico possa essere presente in tutte le famiglie» (leggi qui).
La celebrazione
Parole, queste, che concludono le circa due ore trascorse in Duomo, avviatesi con il saluto di monsignor Fausto Gilardi, penitenziere maggiore della Cattedrale e responsabile del Servizio per la Pastorale liturgica, e l’introduzione di monsignor Ivano Valagussa, vicario episcopale per la Formazione permanente del Clero. «Iniziare la Quaresima con la celebrazione penitenziale, lasciandoci avvolgere dalla misericordia del Padre, significa ricevere quella pace del crocifisso risorto che ha vinto ogni male e che ci rende, oggi, operatori di riconciliazione e di pace», spiega.
La riflessione del Vescovo di Savona
Sulla Lettera paolina ai Filippesi (4, 4-9), si incentra l’esame di coscienza di monsignor Marino: «Questa Lettera è interessante nel suo profilo autobiografico, perché Paolo la scrive mentre è in carcere e dice (1, 12-13) che “l’essere in catene per Cristo” è stato a vantaggio del Vangelo. Questo ci ricorda che non vi può essere contesto esistenziale che non sia a favore del Vangelo e così anche la nostra umanità ferita, con le sue piccole e grandi prigionie, può aiutarci ad annunciare il Vangelo. La prigione di Paolo e il cenacolo degli apostoli sono il grembo dell’annuncio». Per questo il sacramento della riconciliazione è sacramento pasquale, «perché confessare il nostro peccato diventa il terreno che ci permette di risorgere. Non dobbiamo aver paura di morire per risorgere con Gesù».
E, ancora, «Il prete, il vescovo non vive a lato della sua comunità – non esiste un esame di coscienza per i preti – ma tra la sua comunità: non si è prima discepoli e poi maestri, si rimane discepoli per sempre». Da qui la prima domanda: «Come vivo il mio discepolato nella comunità?». Il riferimento è sempre al passo di Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore, la vostra amabilità sia nota a tutti».
«La prima dimensione interiore con la quale oggi vogliamo confrontarci è quella della nostra gioia. L’apostolo non dà un ordine, ma il suo è un invito perché siamo autorizzati alla gioia. Mi pare che ci sia un legame forte con l’annuncio a Maria. Paolo dice che il Signore è vicino e l’angelo saluta Maria con “Il Signore è con te”. Possiamo essere lieti, quindi, per la vicinanza di Dio. Ma quanto ne siamo consapevoli? Il Risorto ci è accanto e questo ci autorizza a essere nella gioia anche nei momenti della prova. Chiediamoci cosa ci rende tristi o lieti e dove, nel nostro vissuto concreto, si radica la vera gioia, la perfetta letizia di cui San Francesco è stato testimone».
E se la gioia che viene dal Vangelo ci rende amabili, come dice ancora Paolo, «certo, non si tratta dell’applauso del mondo, ma occorre domandarsi se siamo amabili o scontrosi e inavvicinabili». Emerge, così, un ulteriore interrogativo: «Sono accessibile dai confratelli, dai parrocchiani, da non praticanti e non credenti? Coltiviamo relazioni buone o solo all’interno del nostro gruppo?».
Infine, le otto parole che Paolo consegna ai Filippesi. Parole «pienamente umane. Coltivare un’umanità piena e matura è già evangelizzare e vivere il Vangelo. È interessante che Paolo usi aggettivi e non sostantivi, quasi a dire che la virtù si incarna sempre in una realtà concreta. Mettere in pratica tutto questo è vivere l’esperienza del discepolato», conclude Marino.
Le testimonianze
Due le testimonianze: la prima di don Peppino Barlocco, ordinato nel 1970, con alle spalle esperienze parrocchiali e come fidei donum in Camerun, che da qualche anno vive una realtà di vita in comune con alcuni sacerdoti della Comunità pastorale Madonna dell’Aiuto di Gorgonzola: «Ho sempre vissuto una spiritualità di unità e sono divenuto punto di riferimento per la mia classe di ordinazione, con la proposta di qualche giorno di ascolto e preghiera per rinforzare la nostra stessa amicizia e comunione», evidenzia don Barlocco, raccontando l’esperienza di una lunga telefonata con un confratello anziano che gli disse: «Questa telefonata fa risuscitare i morti». Quasi a emblema della bellezza della fraternità sacerdotale, «con la concretezza della vita quotidiana che ci fa crescere anche nel rapporto con le famiglie, che ci vedono come una famiglia, e con le altre realtà del Decanato. Oggi sento, qui, di essere un unico presbiterio in Gesù e mi sembra di vedere, nella paziente ricerca di essere vicini tra noi, la possibilità di superare difficoltà che paiono, talvolta, superiori alle nostre forze».
La seconda testimonianza è quella di una coppia di coniugi – Maria Grazia e Maurizio – che da quattro anni condividono con altre due famiglie e alcuni sacerdoti la vita fraterna della Casa Simone di Cirene a Buccinigo, frazione di Erba (Como): «Offriamo il nostro sostegno a sacerdoti che hanno bisogno di un momento di pausa. Quello che desideriamo è rendere evidente la bellezza del quotidiano, così che ciascuno possa riprendere in mano la propria persona nella sua interezza e con libertà. Abbiamo visto spesso una grande solitudine nei sacerdoti e religiosi che hanno vissuto con noi e questo porta a una autoreferenzialità, alla prigionia di un ruolo, a una consistenza della vita che è più “nel fare” il prete che nell’“essere prete”. Tutto questo porta a un inaridimento spirituale. La cosa bella è stata capire, in questi anni, che non ci sono famiglie sane che curano preti malati, ma che siamo tutti feriti e bisognosi l’uno dell’altro e che ciascuno nella casa può riscoprire la sua vocazione al Signore. Cosa permette di risorgere? Accorgersi di uno sguardo che non giudica, ma accoglie».