In San Michele Arcangelo e Santa Rita l'Arcivescovo ha concluso l'incontro dedicato al progetto Caritas-Fom «Parrocchie e Periferia»: «Uniamo le risorse sul territorio, superiamo le distinzioni artificiose tra pastorale e sociale»
di Annamaria
BRACCINI
«Chiesa in uscita, ma anche periferia in entrata». Potrebbe essere questa la cifra simbolica dell’intensa mattinata di riflessione svoltasi presso la parrocchia di San Michele Arcangelo e Santa Rita, quartiere Corvetto, Decanato Vigentino. Titolo della mattinata, dedicata alle esperienze vissute con il progetto «Parrocchie e Periferia» promosso dalla Caritas ambrosiana e dalla Fom, «Essere Chiesa in periferia». Un laboratorio pastorale concluso dall’Arcivescovo, presente per l’intero svolgimento dei lavori.
Gioia e professionalità superando gli schemi
Molte le «parole», con cui l’Arcivescovo rilegge l’esperienza e le testimonianze al centro dell’incontro. A partire dalla prima «molto preziosa, la gioia. Importante anche per reagire al modo grigio cui si parla delle comunità cristiane. Ho sempre avvertito, infatti, anche ora nella Visita pastorale al Centro storico, una contraddizione tra ciò che si fa e come lo si racconta».
Seconda parola, la professionalità. «Questo è un tema su cui da molto tempo si riflette, ma oggi mi sembra che sia emersa con più chiarezza la necessità di poter contare su professionisti per avviare un progetto. Questo, in specifico, ha significato un rilancio di intraprendenza della comunità, che deve poi proseguire con le sue gambe nella continuità della presenza». Come a dire, non basta «l’ingenuità della buona volontà, o lo slancio arbitrario che può rischiare di essere un fuoco di paglia».
Inoltre, uscire dagli schemi, evidenzia l’Arcivescovo. «Ho apprezzato il superamento dell’artificio, come il contrapporre dentro e fuori, sociale e pastorale, con schemi, appunto, che rischiano di diventare più importanti della realtà. L’attenzione della Chiesa è perché risplenda, nell’umanità, la gloria di Dio. Tutto l’umano è immagine di Dio e, quindi, portare le persone a rendersi conto della loro dignità e bellezza, e ciò che la Chiesa è chiamata a fare perché ne venga l’uomo nuovo. Ciò che salva una giovinezza, che motiva un adolescente a uscire dalla condizione di stallo e di dipendenza, è il tema della vocazione, la persuasione di essere chiamati a una vita che merita di essere vissuta. La Chiesa deve dare il Vangelo, che non è la predica della domenica o il catechismo. Dunque, vi raccomando gioia, professionalità, superamento degli schemi, il tema del senso della vita e della vocazione, a cui rispondere, come elemento irrinunciabile nell’educazione di adolescenti che vogliono diventare grandi».
Il progetto
Dopo il saluto del parroco don Roberto Villa, il Vicario episcopale per la Zona I monsignor Carlo Azzimonti ripercorre il cammino del progetto, iniziato quattro anni fa, ma avviato dal suo predecessore, monsignor Carlo Faccendini, «immaginando un Tavolo di confronto dove fossero coinvolte alcune parrocchie periferiche della città segnate da emergenze, come la forte presenza di case popolari. Da quel Tavolo è iniziato un percorso di scelte dal basso per poi arrivare, come è avvenuto, al coinvolgimento di Fom e Caritas, elaborando un modello che attivasse risorse in loco, ma con una modalità declinabile anche in altre zone», spiega Azzimonti.
L’impegno della Caritas
Parole condivise dal direttore di Caritas ambrosiana Luciano Gualzetti: «Si trattava di mettere insieme le esperienze che diverse realtà pastorali stavano sperimentando – naturalmente Caritas era una di queste -, intercettando, attraverso i Centri di ascolto e la sua rete informale, l’appello proveniente dal disagio».
Tre le linee-guida in tale itinerario: «L’accompagnamento educativo dei giovani e delle famiglie, quello sociale dei nuclei più fragili, realizzato in rete con i servizi già attivi sul territorio, e il supporto alle risorse delle comunità parrocchiali, per favorire scelte di buon vicinato e di prossimità feconda». E tutto questo realizzato con l’aiuto di due educatori professionisti, per ciascuna delle quattro parrocchie coinvolte – Sant’Eugenio, San Michele e Santa Rita, Santa Lucia a Quarto Oggiaro e Sant’Anselmo in Baggio -, a cui è stato offerto un sostegno, anzitutto, per una lettura del territorio nel 2018, e, nel 2019, attraverso gli educatori. «Il vantaggio è stato partire dalla realtà con un percorso generativo anche per la Pastorale ordinaria, allargando nel 2021 il progetto alle parrocchie e Cp di Baranzate, Cinisello Balsamo, Pioltello, Limbiate», conclude Gualzetti.
La prospettiva teologica
Don Mattia Colombo, pastoralista, docente nel Seminario di Venegono, nota in riferimento al panorama attuale e al pensiero teologico: «Il cattolicesimo di massa non coincide con il cattolicesimo popolare, che è la forma di Chiesa che lavora per tutti anche se non è di tutti. Siamo immersi nella secolarizzazione, ma la nostra responsabilità è proporre una forma ecclesiale che possa essere per tutti, e questo non dipende da quanti siamo o dal numero delle strutture. Dobbiamo, forse, rivedere come abitare alcuni ambienti, ma l’elemento stabile è il “per tutti”. Certo, si tratta di una figura di Chiesa più complessa e articolata della struttura parrocchiale classica: occorre lavorare con un tessitura tra l’annuncio esplicito del messaggio evangelico e il suo modo di intercettare la vita delle persone. Bisogna tenere sempre presenti questi due “fili” come i due fuochi di un’ellisse».
L’esperienza sul territorio
Concorde Matteo Zappa, responsabile del progetto a Milano di cui ha accompagnato tutta la comunità operativa: «Tre sono gli aspetti del lavoro ritrovati ovunque: l’idea di coltivare pratiche pastorali estroverse, l’attivazione di processi generativi, l’educazione con l’aiuto di professionisti, per la crescita dei ragazzi e come facilitatori dei rapporti interni alle parrocchie».
Don Giuseppe Nichetti, parroco di Sant’Anselmo porta la sua testimonianza, maturata insieme ai sacerdoti delle altre parrocchie coinvolte. Paradigmatica, nel contesto di Baggio, la sperimentazione messa in campo nella problematicissima via Quarti, segnata dal degrado educativo, con i suoi 7 caseggiati e circa 500 famiglie. In ogni caso, un successo il progetto, tra luci e immancabili ombre. Come «il rapporto mancato con il Decanato e gli ancora troppi parrocchiani che vengono in chiesa per fare la comunione e non comunione, per cui l’ostacolo maggiore è stato percepire che “Parrocchie e periferia” non è un’attività caritativa, ma una dinamica di cambiamento di stile». «Uscire fisicamente ha significato, per noi – sottolinea don Nichetti -, mettere per esempio un gazebo con il cartello Parrocchia Sant’Anselmo nella strada che attraversa via Quarti e rendendo, così, la parrocchia visibile, generatrice di rapporti con persone e con altre realtà che lì lavorano da anni».
Notevole anche l’iniziativa “Sette Quarti”, con la presenza di un ambulatorio mobile per gente in grandissima parte priva di assistenza sanitaria, e attraverso “Casba”, coordinamento cui partecipano il Comune, con la giunta del Municipio 7, e una sessantina di attori sociali: «Servono educatori professionali, capaci di lavorare in équipe con un’attitudine pastorale, ma anche con uno sguardo non troppo ecclesiale, o meglio ecclesiastico. Bisogna uscire dalla logica dei bandi che durano un triennio e che poi finiscono, per costruire relazioni nei tempi lunghi, magari pensando a un progetto e impegnare per un decennio i finanziatori», la convinzione del parroco di Baggio.
Da parte sua Veronica D’Ortenzio – impegnata a San Michele e Santa Rita e ora a Limbiate – parla, di «gioia grande» a nome anche degli altri sette operatori professionisti: «L’estroversione della parrocchia è un metodo per abitare le periferie, dimorandovi non come “parrocchia e territorio”, ma come “parrocchia nel territorio” e cercando di incontrare soprattutto quelli che in parrocchia non vanno: ricordiamo che, etimologicamente, parrocchia vuole dire vicino alle case».
Guidi: «Non limitarsi allo schema centro-periferie»
Dopo i laboratori tematici riuniti a gruppi e il “grazie” all’Arcivescovo – «tutto questo si è fatto perché lui per primo ha deciso di innescare un processo» -, don Stefano Guidi, direttore della Fom, di fronte a tutti i partecipanti nuovamente riuniti, scandisce: «Non siamo qui per celebrare ciò che si è fatto, ma per andare avanti. La domanda è se gli adolescenti a Milano riescono a incontrarci. L’oratorio è ancora riconoscibile e, attraverso l’oratorio stesso, lo è la Chiesa? E cosa si incontra e chi? Ci auguriamo che i ragazzi possano accostarsi a un’esperienza credente. Se offriamo un servizio, questo non è mai fine a se stesso, ma è perché abbiamo un’esperienza e una testimonianza da dare. È fondamentale la parola “insieme”: possiamo immaginare gli oratori di Milano come un sistema e non atomi? Lo schema centro e periferia ci vincola. Il lavoro che possiamo fare per portare avanti l’anima di questo progetto, è leggere la metropoli con le sue nuove modalità di movimento e di presenza».
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