Raymond Bahati, 35enne congolese in Italia da 16 anni, lavora al Coe di Barzio. È membro del Consiglio pastorale diocesano ed è stato chiamato a far parte della Commissione di coordinamento del Sinodo minore: «Un’iniziativa profetica, una mossa di luce che spegne il buio»
di Luisa
BOVE
Incredulità, gioia e speranza. Sono questi i sentimenti che ha provato Raymond Bahati quando l’arcivescovo Mario Delpini, la settimana scorsa, ha annunciato nel Consiglio pastorale diocesano l’intenzione di indire un Sinodo minore dedicato alla presenza degli stranieri nelle comunità cristiane. Bahati, 35 anni, originario della Repubblica Democratica del Congo, vive in Italia da 16 anni e si è laureato in psicologia all’Università cattolica di Milano. Abita a Pasturo, in Valsassina, e lavora al Coe (Centro orientamento educativo) di Barzio su progetti con le scuole, nelle carceri e per il Cinema Africano. «Seguo anche progetti sul bullismo, perché l’educazione interculturale, che è la specificità del Coe, è una realtà vasta, che si ramifica sulle problematiche dei giovani di oggi e della società».
Che cosa significa per lei dare voce alla sua gente attraverso l’esperienza del Consiglio pastorale?
Quando mi è stato chiesto di farne parte è stata una gioia. Non sempre riusciamo a veicolare agli italiani le nostre riflessioni, c’è pregiudizio anche da parte nostra, per paura di essere fraintesi. Per me era un’opportunità per essere la voce di tutti questi fratelli e sorelle, dei loro bisogni, ma anche per rendere questa nostra Chiesa universale, cattolica. Le fatiche dell’integrazione in questa società possono essere anche nel modo di vivere la fede. Per esempio i subsahariani africani sono abituati a vivere la Messa in modo molto diverso rispetto all’approccio occidentale italiano e si lamentano sempre. Quando hanno l’opportunità di avere una Messa loro, si sentono a proprio agio. È un’autocritica che ho sempre fatto tra me e me, e con i miei fratelli, perché ci chiudiamo, invece di condividere il nostro modo di vivere la fede insieme ai fratelli e alle sorelle che ci hanno accolto. Per questo mi ha stupito la lucidità con cui il Vescovo ha declinato questo bisogno di diventare una Chiesa unica.
Ora è anche membro della Commissione del Sinodo “La Chiesa dalle genti”. Cosa si aspetta da questa iniziativa profetica?
Lei ha detto la parola giusta: «profetica». Non ci credevo, non stavo in piedi, ero emozionato quando Delpini ha declinato il senso del Sinodo. Dopo scontri e confronti anche tra fratelli, sentirlo in modo così chiaro, limpido, è stato un sogno. Con questo Sinodo cambia la Chiesa, non soltanto quella di Milano. Sono convinto che il futuro ci darà ragione, perché Milano, essendo la Diocesi più grande del mondo, in un modo o nell’altro ha sempre trascinato la Chiesa. Avere il coraggio di fare un passo come Chiesa ambrosiana, non vuol dire essere prepotenti o sentirsi migliori. Abbiamo una vocazione, abbiamo un compito più grande, quello di scrivere le linee-guida, non soltanto per la Chiesa, ma per la società intera. Io che lavoro nel campo interculturale vedo che la società civile e la politica fanno ancora fatica a capire che l’Italia è cambiata. E si perde tempo.
In che senso?
Un giorno l’ho detto anche al Vescovo: «Si perde tempo. E tutti ne pagheremo le conseguenze: noi stranieri e gli autoctoni che ci accolgono, rischiando una guerra tra fratelli e sorelle». Invece una mossa come quella del Sinodo, anche se pastorale, indirettamente avrà una ricaduta anche civile, lo si voglia o no. Mia nonna mi diceva sempre: «Raymond, si spegne il buio soltanto accendendo la luce». Ovvero: si estirpa il male soltanto facendo il bene, non andando a rincorrere il male, perché è un circolo vizioso e non se ne esce. Quella del Sinodo è una mossa di luce che spegne il buio. Nonostante gli intralci, che ineluttabilmente ci saranno, è una mossa suscitata dallo Spirito e si vede. Quando Delpini lo ha annunciato al Consiglio pastorale è echeggiato un applauso festoso, sentito, spontaneo. Tutti hanno sentito la rivoluzione dello Spirito che dà speranza. E io ho detto: «Mi sento fiero di far parte di questa Chiesa», perché significa essere parte integrante di un cammino di cambiamento, di metanoia.