Dal 28 al 31 marzo, sui media diocesani l’attore si alterna con Arianna Scommegna nell’interpretazione di “Quattro cavalli e un asino”: «Un’esperienza di grande valore»
di Annamaria
Braccini
«La realizzazione di queste registrazioni è stata un’esperienza molto particolare, in primis perché erano dei testi d’autore, quindi implicavano un avvicinamento a questo lavoro – per così dire – “in punta di piedi”». Alessandro Castellucci, milanese, classe 1968, attore, doppiatore, autore, coordinatore dei laboratori di teatro della Scuola di “Macrò Maudit”, impegnato anche in percorsi teatrali con i detenuti delle carceri di Bollate e San Vittore, non ha dubbi. Leggere due racconti di “Quattro cavalli e un asino”, firmati dall’Arcivescovo, che andranno in onda da domenica 28 a mercoledì 31 marzo, è stata una gran bella avventura.
Quali sono state le sue risonanze umane e professionali nell’interpretare i racconti?
Oltre la gioia di potermi misurare con quanto ha composto l’Arcivescovo di Milano, ho provato una particolare suggestione perché abbiamo avuto l’opportunità di registrare in un teatro vuoto che, in questo periodo, mi pare il paradigma di quello che sta succedendo alla vita di molti di noi. Non parlo solo della gente di spettacolo, ma di tutti. È come se vivessimo in un teatro vuoto. Infatti la vita di ciascuno si svolge, perlopiù, all’interno di una platea priva di interlocutori reali, perché siamo sempre più abituati a utilizzare i mezzi che la tecnologia mette a disposizione per comunicare. Il fatto di trovarmi nel teatro “Blu Milano” – che peraltro conoscevo molto bene, perché quindici anni fa ha ospitato molte prove della mia compagnia, e di cui sono stato direttore artistico -, è stato molto toccante ed emozionante.
C’è una frase di queste letture, un’intuizione dell’Arcivescovo che le è piaciuta particolarmente?
L’artificio letterario usato è stato molto efficace, a mio avviso, perché, utilizzando un linguaggio fruibile dai più giovani, anche dai piccoli, si sono comunque affrontate tematiche assai profonde. La cosa interessante – come i grandi autori sanno fare – è di spiazzare il pubblico partendo da presupposti semplici, grotteschi, se non comici, per andare a toccare delle corde molto più sensibili e poetiche. Mi sembra questo il messaggio fondante di questi racconti.
L’iniziativa dell’Arcivescovo vuole anche manifestare solidarietà al mondo dello spettacolo che vive, ormai da più di un anno, una situazione tra le più critiche del Paese. Lei è personalmente ottimista riguardo alla ripresa, quando sarà possibile di tornare a riempire teatri e cinema?
Credo che non siano frasi fatte quelle sul “ne usciremo migliori”: migliori forse no, ma diversi sicuramente. Questo vale per ognuno – come ho già detto -, ma per la mia categoria ancora di più, perché nessuno entrerà in un teatro, né dalla parte della platea, né dalla parte del palcoscenico, com’era abituato a fare prima della pandemia. Adesso abbiamo l’opportunità, attraverso questa tragedia immane, di percepire che cosa ha più valore e di cosa abbiamo veramente bisogno. Più che riempire i teatri per abitudine, magari perché possiamo contare su un abbonamento, assistendo a spettacoli senza essere preparati, dobbiamo creare una scala di priorità delle cose che ci interessano. Per esempio, per me avere avuto la fortuna di confrontarmi con questo autore così unico, in un luogo e in circostanze senz’altro particolari, ha avuto un valore intrinseco profondo. Senza dubbio non è paragonabile, magari, a una prima teatrale, però – ripeto -, questa esperienza è ancora più utile e valida dal punto di vista professionale mio e di chi ne fruirà: un pubblico che si avvicinerà alle tematiche trattate non tanto per abitudine, ma per i contenuti che quell’opera, quel racconto, quella pièce, dunque, il teatro nel suo complesso porta con sé.