L’Arcivescovo ha presieduto il Pontificale nella Solennità del copatrono della Diocesi, san Carlo Borromeo, esemplare «buon pastore che ha servito l’unità della Chiesa»
di Annamaria
BRACCINI
Il buon pastore che – sull’esempio di Gesù Buon Pastore – raduna le pecore e opera per l’unità e la concordia del suo popolo.
Nella solennità del copatrono, san Carlo Borromeo, tutto parla, in Duomo, del rifondatore della Chiesa ambrosiana: dai “Quadroni” seicenteschi che, tra le navate, ne illustrano la vita, alle Istituzioni, da lui fondate o rinnovate, che ancora oggi segnano la ricchezza e la vivacità della Diocesi.
Così, presso lo “Scurolo” che conserva le spoglie del santo Vescovo, attorno a monsignor Delpini per la preghiera che precede la Messa, ci sono 10 altri vescovi – tra cui monsignor Stanislav Hocevar, arcivescovo di Belgrado e monsignor Adelio Dell’Oro, prete ambrosiano, vescovo di Karaganda in Kazakhstan – e coloro che queste Istituzioni rappresentano: il rettore del Seminario, don Enrico Castagna, il prevosto degli Oblati di San Carlo, padre Giulio Binaghi, il moderator Curiae, monsignor Bruno Marinoni, l’arciprete del Duomo, monsignor Gianantonio Borgonovo. Concelebranti, unitamente ai membri del Consiglio Episcopale Milanese, ai canonici del Capitolo metropolitano, agli Oblati diocesani, ai Decani (che nella giornata hanno partecipato alla loro periodica assemblea) e a molti sacerdoti. Presenti molti fedeli, i seminaristi, i Diaconi transeunti e permanenti, i fratelli Oblati di San Carlo, i rappresentati delle Confraternite e degli Ordini cavallereschi.
L’Arcivescovo che, per l’occasione indossa l’anello e porta il Pastorale di San Carlo, riflettendo, sulla pagina del Vangelo di Giovanni al capitolo 10 – appunto, il “buon pastore” – fa riferimento al lupo che disperde le pecore. Un richiamo chiaro anche per l’oggi.
L’omelia dell’Arcivescovo
«Dividere, disperdere, portare via: l’opera del lupo è evidente. Insinua l’idea che, per salvarsi, bisogna scappare, suggerisce che si è più sicuri se ci si separa, se ciascuno va per la sua strada e si chiude nel gruppo dei suoi amici. Il lupo suggerisce che è più interessante la contrapposizione e la critica vicendevole, piuttosto che la comunione e la stima gli uni per gli altri, che la perseveranza è noiosa e l’incostanza avventurosa, che seguire questo e quell’altro sapiente è più promettente che seguire Gesù e sostenere il peso dell’armonia della comunità».
Quale, allora, la missione del buon pastore se non contrastare il lupo? Un impegno che san Carlo incarnò, divenendone campione.
«San Carlo – dice, infatti, il suo attuale successore – ha cercato con tutte le sue forze di contrastare il lupo e di servire l’unità della Chiesa e di coloro che sono nella Chiesa».
Tre i passi indicati dall’Arcivescovo.
Anzitutto, la sincerità. «Quella che penetra nell’intimità più segreta dove serpeggiano l’amore e, insieme, gli umori, i malumori, i risentimenti. Si può, infatti, essere gente appassionata del cammino della Chiesa ed essere anche critici, ma essere sinceramente docili alla sequela del Buon Pastore. Al contrario, si può essere irreprensibili e mostrarsi appassionati, ma in profondità essere animati non dal desiderio del bene della comunità, ma da ambizioni meschine, da passioni ambigue, da una visione di sé priva di realismo».
Poi, un secondo modo per «essere vigorosi nel contrastare il lupo»: la stima di sé, per cui il vescovo Mario scandisce: «I tuoi fallimenti non ti inducano a pensare che tu sia un fallimento, l’indifferenza che ti circonda non ti induca a pensare di essere insignificante, l’impressione di essere inconcludente non ti induca a pensare che la potenza di Dio è venuta meno. Non sottovalutarti mai: nessuno ti ha promesso una via trionfale, ma sempre ti è stato insegnato che il Regno di Dio è presente come un seme. Tu sei chiamato, Dio ha fiducia in te e si aspetta qualcosa».
Da qui, l’affondo. «Il tempo in cui viviamo, il contesto della missione della Chiesa oggi, in questa terra che san Carlo ha percorso con infaticabile zelo, le nostre comunità, noi preti, diaconi, consacrati e il popolo cristiano possiamo essere anche scoraggiati da un senso di impotenza, dalla percezione di essere insignificanti, da una stanchezza che sembra sterile e improduttiva. Sembra che il lupo sia più forte, più abile, più invincibile. Ma la forza che sostiene i discepoli è la fede in Gesù».
E, ancora, un terzo aspetto. «La varietà dei doni e delle vocazioni, la molteplicità dei ruoli è per edificare la comunità. È, quindi, necessaria la stima di sé e degli altri, l’apprezzamento per i doni che gli altri portano e dire che tutti sono i benvenuti. È necessario apprezzare se stessi, non per esibire le proprie caratteristiche e doti, ma per mettere ogni cosa a servizio degli altri. L’apprezzamento per il dono che ciascuno porta, domanda di esprimersi in una vita di Chiesa. sveglia alla responsabilità tutti, chiede capacità di ascolto reciproco da parte di tutti i fedeli, laici e consacrati in ogni forma di consacrazione, convoca per discernere e decidere».
Il riferimento non può che essere al cammino che la Chiesa ambrosiana sta vivendo. «Siamo sollecitati in molti modi a contribuire alla riflessione complessiva sulla sinodalità. In un certo senso mi affascina l’impresa di fare delle nostre comunità e della Diocesi tutta, non un luogo dove si discute, ma una sorta di prototipo di sinodalità praticata, continuando un cammino di coinvolgimento di tutti i fedeli nella corresponsabilità per la missione. Più che scrivere nuovi libri sulla sinodalità, siamo chiamati, in coerenza con lo spirito operativo della nostra terra e con il modello operativo proposto da san Carlo, a scrivere pagine di storia per una Chiesa unita, libera, lieta». Per questo «occorre apprezzare i doni degli altri, aspettarsi un vantaggio comune da ciascuno, promuovere la presenza di persone diverse nelle diverse responsabilità, scoprire i talenti, far sorgere vocazioni, diffondere la persuasione che la vita è una vocazione. San Carlo si è speso con tutte le sue forze per contrastare il lupo, per servire l’unità della Chiesa del suo tempo, con una interpretazione della sinodalità che sentiamo anacronistica per il piglio decisionista. Ma da lui ereditiamo non questo stile, ma lo zelo, la disponibilità a servire, fino al sacrificio, la passione per una Chiesa che pratichi l’insegnamento del Concilio Vaticano II, offra parole di speranza per questo nostro tempo e sia così attraente da essere voce dello Spirito che convince molti a farsi avanti essendone degni».
Al termine, ancora un pensiero per la nostra Chiesa di oggi. «La festa di san Carlo – conclude il vescovo Mario – ci ha convocati: è una bella cosa ritrovarci qui. La presenza del presbiterio, dei preti, dei seminaristi, degli oblati, di tante rappresentanze del popolo cristiano dicono come essa sia dotata di tanti doni. Il mio pensiero affettuoso va in particolare al cardinale Angelo Scola che il 7 novembre festeggerà i suoi 80 anni. Con gratitudine e affetto lo accompagniamo in questi giorni».