L’ottimo riscontro dell’iniziativa nell’analisi del suo Presidente: «Superati gli 8 milioni raccolti con oltre 4 milioni erogati. Anche i liberi professionisti ora, chiedono aiuto: le difficoltà sono ancora davanti a noi, occorre continuare a donare e cercare di ridistribuire in modo più equo la ricchezza»

di Annamaria Braccini

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Un gran risultato, fatto di una generosità diffusa – magari poco immaginabile in questi momenti tanto difficili -, e di sinergia, competenza, fraternità, sguardo rivolto con fiducia al futuro. Insomma, tutto ciò che è iscritto nel Dna del farsi prossimo che caratterizza una delle peculiarità più radicate e note della Chiesa ambrosiana. Di cui il Fondo San Giuseppe rappresenta, appunto, un risultato felice, come sottolinea monsignor Luca Bressan, vicario episcopale e presidente del Fondo stesso: «Oltre 2000 persone aiutate sono un traguardo di rilievo. Nei giorni scorsi si è riunito il Cda di Caritas e abbiamo potuto confermare che il Fondo ha superato gli 8 milioni di raccolta con oltre 4 milioni di erogazione».

A chi, soprattutto, bisogna dire grazie?
Indubbiamente occorre ringraziare il circuito di solidarietà che si è creato e che mi pare davvero esemplare di una cultura della cura – come dice papa Francesco -, capace di seminare quella speranza che l’Arcivescovo continua a chiederci. Allo stesso tempo, è anche un invito a continuare a donare, perché il momento più pesante è ancora davanti a noi, in quanto le conseguenze economiche della pandemia sono lungi dall’essere concluse.

Fra le categorie più sostenute vi sono i cassaintegrati, e anche se l’obbligo di non licenziamento è stato prorogato fino alla fine di marzo, la situazione si prospetta non facile…
Certo. A tale proposito, in questi mesi di vita del Fondo, nato il 19 marzo 2020 (festa di San Giuseppe), abbiamo visto un’evoluzione nella tipologia di chi ha chiesto aiuto. Siamo partiti dal mondo della ristorazione e delle collaboratrici familiari, per arrivare adesso anche ai liberi professionisti: anche loro iniziano a sentire la fatica di un anno senza lavoro.

Il dato degli italiani che si sono rivolti al Fondo, pari al 45,2%, è significativo?
Sostanzialmente la pandemia ha toccato tutti, sia a livello di fasce professionali come anche di provenienza, creando una distribuzione, potremmo dire, sempre più disomogenea della ricchezza. Infatti, di fronte all’innegabile difficoltà di molti, ci sono figure e categorie che hanno continuato a lavorare, aumentando addirittura il loro guadagno. Per questo si tratta di chiedere di ridistribuire, in modo più equo, una ricchezza che, altrimenti, creerà solo tensioni e, poi, fratture sociali.

L’Arcivescovo dice: «Ciò che rende insopportabile la vita non è la povertà, ma è il sentirsi abbandonati». Il Fondo, come già fece il Fondo Famiglia Lavoro, ha un ruolo che va al di là della pura erogazione finanziaria, creando “rete”?
L’idea è quella di aiutare la gente a vedere un futuro concreto, perché il fine naturale del San Giuseppe – e dell’altra branca del Fondo, che è “Diamo Lavoro” -, è andare verso forme di accompagnamento e di reinserimento nel mondo occupazionale, al di là dell’aiuto pecuniario immediato.

Il sindaco Sala, da parte sua, ha evidenziato il buon uso delle risorse che apre a «future e ulteriori collaborazioni». Anche questo è un bel segno…
Il Sindaco ha espresso fiducia nei confronti della Chiesa ambrosiana e ha contribuito in maniera forte, offrendo, come Comune di Milano, 2 milioni di euro, ma lasciando che fosse la Caritas, in modo autonomo e libero, a gestire le risorse. Questo è un segnale di sintonia per il presente e per il futuro, man mano che vedremo come evolve la crisi che tutti intuiamo conoscerà nuovi capitoli assai pesanti.

Qual è l’aspetto che più l’ha colpita, come presidente del Fondo San Giuseppe?
Mi ha impressionato il fatto che, come nelle altre edizioni, il Fondo sia stato sostenuto da una miriade di persone che esercitano la solidarietà nel segreto dei loro cuori e, spesso, in modo reiterato. Centinaia di donne e uomini che hanno fatto più di una donazione, offrendo il loro contributo anche due o tre volte. Questo dice di una cultura della solidarietà radicata e che ci può cambiare, aiutando a contenere i rischi di un aumento di quella rabbia, contro tutto e contro tutti, che la crisi – da cui non sappiamo come uscire – può scatenare.

 

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