Franco Anelli, rettore della Cattolica, rilegge stile e contenuto del Discorso alla Città, che analizza la società attuale e le sue contraddizioni e indica le prospettive svelate dalla fede, chiamando in causa anche centri di elaborazione del pensiero quali sono le università
di Franco
ANELLI
Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
Il recente Discorso alla città dell’Arcivescovo di Milano, pronunciato nella Basilica di Sant’Ambrogio alla vigilia della festa del Patrono, colpisce per la continuità, stilistica e tematica, con quello dell’anno passato, Autorizzati a pensare. Si tratta di un passo ulteriore, uno svolgimento sorprendente, che fa fiorire alcuni concetti chiave del progetto e dell’impegno pastorale di monsignor Mario Delpini.
Non si possono intendere i molti stimoli alla riflessione offerti dal Discorso senza soffermarsi sulla costruzione stilistica, non pura forma, ma parte del messaggio. Cominciamo dal titolo, che è potente in sé, ma lo è soprattutto per come emerge, lentamente e in modo avvolgente, annunciato da una serie di domande («c’è una parola?«) e di dichiarazioni di consapevolezza («mi arrischio a proporre questa parola») per poi finalmente esplicitarsi: «Benvenuto futuro!». È un programma e un messaggio che si declina progressivamente per le soggettività e gli ambiti del presente: i bambini, i ragazzi e le ragazze, la famiglia, il lavoro, la società plurale, la cura per la casa comune. Soprattutto è una formula intimamente provocatoria, che ci scuote perché ci mette di fronte alla contraddizione di un’epoca che sembra incapace di accogliere il futuro, nel quale il sentimento diffuso scorge minacce e incertezze invece che speranze e promesse. Gli anni a venire ci riservano profondi cambiamenti e il disagio nasce da un senso di impreparazione di fronte a mutamenti che appaiono inevitabili. Preparare il futuro, e contribuire a costruirlo correggendo i vizi del presente, è un impegno arduo, e per affrontarlo – torna a dirci l’Arcivescovo – siamo «autorizzati a pensare». Preparandoci, aprendo il pensiero e lo spirito, potremo accogliere il futuro come “benvenuto”.
Il Discorso muove dal cuore del messaggio cristiano, la speranza («quel credere alla promessa che impegna a trafficare i talenti e a esercitare le proprie responsabilità per portare a compimento la propria vocazione»), per poi percorrere, come in un viaggio, le urgenze della società e svelare come lo sguardo della fede possa offrire nuove prospettive. L’Arcivescovo mette in luce della speranza la natura concreta, efficace, di energia collettiva che muove la Chiesa, fino a sfociare in un altro rovesciamento di prospettiva: «Non è il futuro il principio della speranza; credo piuttosto che sia la speranza il principio del futuro».
Infine il messaggio è caratterizzato da una profonda mitezza. Il testo di Sant’Ambrogio posto in esergo – il De Paenitentia – richiama la necessità di questa virtù nel pastore: «Chi cerca di emendare i difetti della debolezza umana deve sostenerla e in un certo modo farla pesare sulle proprie spalle, non già scaricarla». È con mitezza che monsignor Delpini legge il presente e le sue contraddizioni. I grandi temi di oggi (la denatalità, i rischi dell’adolescenza in una società che ha smarrito il modello adulto, le difficoltà delle famiglie, i problemi economici, i fenomeni migratori e la questione ambientale) sono tradotti nella necessità di una cura che mobilita il concreto impegno di tutti, a partire da quello della Chiesa ambrosiana e di quella universale, fino ad arrivare a ciascuno di noi. Nelle parole dell’Arcivescovo la nostra città assume una dimensione nuova. Rivolgendosi agli abitanti di una metropoli in ascesa, ma percorsa dalle contraddizioni del mondo contemporaneo, Monsignor Delpini evoca non già uno dei simboli del successo, ma un momento tragico della storia comune, la strage di Piazza Fontana, richiamato come memoria di una sfida atroce davanti alla quale la comunità seppe stringersi e reagire per vincere una battaglia cruciale.
Camminare insieme, vivere insieme la speranza, diviene il valore identitario che la città può offrire a se stessa: «Dove la comunità è invisibile – afferma l’Arcivescovo – la società si fa invivibile”. E uno dei luoghi dove una comunità si deve rendere visibile è l’Università. Rivolgendosi alle istituzioni di alta formazione e ricerca, monsignor Delpini segnala l’esigenza di coltivare «una sapienza che orienti la scienza, di un umanesimo che ispiri e pratichi la solidarietà intelligente nella gestione delle risorse, di uno stile di sobrietà che privilegi le relazioni sulle realizzazioni»: un tema, quello della sapienza come modalità autentica di declinazione esistenziale della conoscenza, ricorrente nelle parole di papa Francesco, e che fonda un impegno che l’Università Cattolica sente come parte integrante della sua ragion d’essere. L’Arcivescovo sembra suggerire che la speranza dev’essere conformata a un pensiero che sappia immaginare scenari inediti e prevedere le conseguenze delle scelte di oggi. Il successore di Ambrogio richiama al difficile, ma affascinante sforzo di elaborare un approccio scientifico ed educativo che, attento al senso e non solo al metodo, non prescinda dalla persona; e chiede una convinta capacità di dialogare con il mondo sotto il segno della speranza, al servizio di una Chiesa che come quella ambrosiana vive e opera con fiducia nel destino dell’uomo.