In un’epoca dominata da populismi e fanatismi, per costruire il futuro nel Discorso alla Città l’Arcivescovo rivolge un invito «ad affrontare le questioni complesse e improrogabili con quella ragionevolezza che cerca di leggere la realtà con un vigile senso critico e che esplora percorsi con un realismo appassionato e illuminato». In allegato il testo integrale
di Pino
NARDI
«Siamo autorizzati a pensare. È questa la sostanza della riflessione che mi permetto di offrire alla città in occasione della festa del patrono sant’Ambrogio. È questo il percorso promettente che mi dichiaro disponibile a continuare insieme con tutti coloro che abitano in città e ne desiderano il bene. Siamo autorizzati anche a pensare!». Esordisce così l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini, nel suo tradizionale Discorso alla Città, pronunciato giovedì 6 dicembre nella Basilica di Sant’Ambrogio, davanti alle autorità civili, militari, religiose e al mondo dell’economia e del lavoro.
Un testo denso, che entra nel vivo del dibattito pubblico di questi tempi, proponendo una lettura della società e del vivere civile che va in netta controtendenza rispetto alle paure, ai populismi, alle emotività. Una chiamata alla responsabilità, al ruolo che Milano può svolgere proprio su questo percorso “alternativo”, all’impegno della Chiesa ambrosiana aperta al dialogo, al confronto, al lavorare insieme per costruire il bene comune, avendo come fari il sogno europeo da rilanciare e la Costituzione italiana.
La riflessione dell’Arcivescovo parte dall’analisi di tre aspetti: le pretese indiscutibili, il consenso emotivo, le procedure esasperanti.
Dall’emotività e suscettibilità all’essere persone ragionevoli
«L’emozione non è un male, ma non è una ragione – dice l’Arcivescovo -. Forse in questo momento l’intensità delle emozioni è particolarmente determinante nei comportamenti. Ciascuno si ritiene criterio del bene e del male, del diritto e del torto: quello che io sento è indiscutibile, quello che io voglio è insindacabile».
Questo si traduce anche nel rapporto con chi «presta un servizio pubblico alla comunità»: «Ci vogliono molta pazienza, capacità di relazione, predisposizione all’empatia e alla comprensione, autocontrollo nelle reazioni, per portare alcune richieste a buon fine, mentre alle spalle premono impazienti molti altri che pure hanno diritto a essere serviti. Desidero esprimere il mio apprezzamento per gli operatori che sanno accogliere con particolare attenzione coloro che si trovano in condizioni di necessità, sprovveduti e smarriti di fronte alle procedure per ottenere le prestazioni cui hanno diritto, imbarazzati davanti a operatori con cui è faticoso intendersi». Infatti ogni giorno chi presta un pubblico servizio si trova a rapportarsi con molte persone «che vivono le loro legittime aspettative con atteggiamenti di pretesa arrogante. La pretesa non è il far valere i propri diritti, ma è mancare di comprensione nei confronti degli operatori e delle regole che essi devono rispettare».
Dunque, una mentalità, una “cultura post-moderna” che «esalta l’emozione, lo slogan gridato, stuzzica la suscettibilità e deprime il pensiero riflessivo». Si è diffusa in questo periodo «una sensibilità che si è ammalata di suscettibilità, di un pregiudiziale atteggiamento di discredito verso le istituzioni e in particolare verso i servizi pubblici più vicini ai cittadini».
Ovviamente l’Arcivescovo precisa: «La mia intenzione non è di avallare le inadempienze o di giustificare i disservizi. Piuttosto credo che la convivenza in città sarebbe più serena e la presenza di tutti più costruttiva se, dominando l’impazienza e le pretese, potessimo essere tutti più ragionevoli, comprensivi, realisti nel considerare quello che si fa, quello che si può fare per migliorare e anche quello che non si può fare. Ecco: siamo autorizzati a pensare, a essere persone ragionevoli».
Infatti, il rischio è quello «di lasciarsi dominare da reazioni emotive e farle valere come se fossero delle vere e proprie ragioni su cui fondare le nostre scelte e avanzare rivendicazioni. Questa confusione tra ragioni ed emozioni spesso può complicare gravemente la convivenza civile».
Condizionati da slogan e costruzione del consenso, puntare invece alla ragionevolezza
L’Arcivescovo stigmatizza la diffusione di una modalità di comunicazione pubblica deformante. «Nel dibattito pubblico, nel confronto tra le parti, nella campagna elettorale, il linguaggio tende a degenerare in espressioni aggressive, l’argomentazione si riduce a espressioni a effetto, le proposte si esprimono con slogan riduttivi piuttosto che con elaborazioni persuasive». Perciò «credo che il consenso costruito con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali, non giovi al bene dei cittadini e non favorisca la partecipazione democratica».
La qualità del tessuto democratico sta molto a cuore all’Arcivescovo: «La partecipazione democratica e la corresponsabilità per il bene comune crescono, a me sembra, se si condividono pensieri e non solo emozioni, informazioni obiettive e non solo titoli a effetto, confronti su dati e programmi e non solo insulti e insinuazioni, desideri e non solo ricerca compulsiva di risposta ai bisogni».
Bisogna allora invertire la rotta e imboccare strade diverse: «Credo sia opportuno un invito ad affrontare le questioni complesse e improrogabili con quella ragionevolezza che cerca di leggere la realtà con un vigile senso critico e che esplora percorsi con un realismo appassionato e illuminato». Una sensibilità che, tra l’altro, fa parte del dna dei milanesi, come sottolinea l’Arcivescovo: «Mi sembra che siano inscritti nell’animo della nostra gente una profonda diffidenza per ogni fanatismo, un naturale scetticismo per ogni proposta di ricette che promettono rapida e facile soluzione per problemi complicati e difficili».
Dunque, «la ragionevolezza che si può anche chiamare “buon senso” – espressione di un senso buono -, l’intelligenza e la competenza che possono maturare in saggezza, una disposizione alla stima vicendevole che si può ritenere fondamentale per una convivenza serena possono creare consenso con argomentazioni, danno forma ad alleanze tra le forze in gioco che presuppongono l’affidabilità delle persone e delle organizzazioni che vi convergono. Occorre riscoprire la cultura e il pensiero che danno buone ragioni alla fiducia, alla reciproca relazione, a quella sapienza che viene dall’alto che “anzitutto è pura, poi pacifica, mite”».
Insofferenti alle procedure, necessario avviare semplificazioni
Spesso i cittadini si trovano in un labirinto di norme e burocrazie che innervosiscono non poco. «La normativa che impone adempimenti complessi offre appigli per quella litigiosità aggressiva e irrazionale che può esporre i responsabili a beghe interminabili. Pertanto diventa comprensibile la tendenza a evitare di prendersi responsabilità da parte dei singoli operatori». Di qui una battuta fulminante dell’Arcivescovo: «Forse che “la patria del diritto”, come si può definire l’Italia, sia diventata un condominio di azzeccagarbugli litigiosi?».
Anche in questo caso l’Arcivescovo non si ferma all’analisi, ma prospetta una strada per la soluzione. «Mi sembra che si debba insistere in quei percorsi di semplificazione che sono spesso enunciati e promessi per rendere più facile essere buoni cittadini, onesti e in regola con la pubblica amministrazione, per favorire l’intraprendenza di imprenditori e di operatori negli ambiti del servizio ai cittadini e della solidarietà. È però evidente che i percorsi promessi e avviati presuppongono il recupero di una fiducia tra i cittadini, e tra cittadini e pubblica amministrazione. Non servirà semplificare le procedure se perdura il sospetto sul cittadino come incline a delinquere e se rimane radicata nel cittadino l’inclinazione alla litigiosità e alla suscettibilità che è insofferente delle regole del vivere insieme e del rispetto reciproco».
Una responsabilità collettiva di legalità, che richiede una maturazione civile: «Il rispetto delle regole e del prossimo è un frutto del senso civico, del senso di appartenenza alla comunità, della persuasione che il bene comune del convivere in pace sia da anteporre all’interesse privato momentaneo e che il danno arrecato a una comunità prima o poi danneggi anche chi lo compie. La riscoperta e la valorizzazione del bene comune (e non solo dei beni comuni, dei beni privati e di quelli pubblici), oltre lo Stato e il mercato, può favorire la rigenerazione della cittadinanza, come vivibilità e appartenenza civile».
Autorizzati a pensare
«Essere persone ragionevoli è un contributo indispensabile per il bene comune. Questo evoca la solidarietà/fraternità della condivisione relazionale», sottolinea l’Arcivescovo. E lancia un appello a tutte le realtà che pensano e aiutano a pensare. «Ritengo che sia responsabilità degli intellettuali e degli studiosi di scienze umane e sociali approfondire la questione e comunicarne i risultati».
Un ruolo decisivo deve svolgerlo la Milano città universitaria. «La nostra città, in cui università e istituzioni culturali sono così significative e apprezzate, è chiamata a produrre e a proporre un pensiero politico, sociale, economico, culturale che superando gli ambiti troppo isolati delle singole discipline possa aiutare a leggere il presente e a immaginare il futuro».
Un ruolo di guida per la metropoli, in una stagione particolarmente felice. «Credo che saremmo tutti fieri se proprio qui a Milano si approfondissero riflessioni, si promuovessero confronti, si potessero riconoscere scuole e programmi, prospettive e responsabilità. Il nostro senso pratico ci rende allergici alle chiacchiere e alle celebrazioni inconcludenti. Forse insieme possiamo coltivare un senso di responsabilità che ci impegna a un esercizio pubblico dell’intelligenza, che si metta a servizio della convivenza di tutti, che sia attenta a dare la parola a ogni componente della città, che raccolga l’aspirazione di tutti a vivere insieme, ad affrontare insieme i problemi e i bisogni, a recensire insieme risorse e potenzialità. Mi sembra significativo il contributo che a questa impresa hanno offerto e offrono i cristiani presenti nelle accademie della città».
Ma pensare non è solo analisi e calcolo
Sono diffuse le tentazioni ad asservire il pensiero alle mode del momento, piuttosto che esercitare la responsabilità di un pensiero critico. «Tra le tendenze che oggi minano il pensare – afferma l’Arcivescovo – mi pare che sia insidioso l’utilitarismo che riduce il valore all’utile immediato e quantificabile, che si chiami profitto, consenso, indice di gradimento. Il pensiero asservito all’utilitarismo si riduce a calcolo, quindi a valutare risorse e mezzi in vista di un risultato per lo più individuale o corporativistico piuttosto che di un fine comune e condiviso. Pertanto si rinuncia alla riflessione sulle domande di senso, relegando l’argomento nell’irrazionale e nel sentimentale, escluso per principio dalla sfera pubblica e dalla possibilità di una dimensione sociale».
Dunque, non un pensiero subordinato e strumentale, ma idee per costruire il futuro. «Vogliamo lavorare per superare il mero “pensiero calcolante” in favore di un allargamento del concetto di ragione; un pensiero realista, che abbia a cuore la ricerca continua della verità e del bene condiviso, libera da pregiudizi, aperta agli altri e alla domanda di senso».
Pensare per dare forma a una visione di futuro: l’Europa
Per indicare il futuro, l’Arcivescovo richiama tutti al grande sogno dell’Europa unita, che ha visto storicamente i cristiani in prima linea. «Credo che, quanto agli aspetti comuni di una visione di futuro, si possa convergere su quel cammino che porta a una convivenza pacifica e solidale e che intenda l’Europa come convivenza di popoli. La complessità e le problematiche che hanno segnato il concreto configurarsi dell’Unione Europea richiedono una ripresa delle intenzioni originarie: i cittadini d’Europa erano e sono persuasi che siano da preferire l’unione alla divisione, la collaborazione alla concorrenza, la pace alla guerra. Siamo impegnati e motivati per una partecipazione costruttiva alle vicende europee: vogliamo dare volto all’Unione Europea dei popoli e dei valori, che pensi i suoi valori e le sue attese nella concretezza storica del tempo presente e di quello a venire, e che non si occupi di beghe e di interessi contrapposti».
Al centro la nostra Costituzione
«In questo contesto di un cantiere europeo al quale rimettere mano – prosegue l’Arcivescovo – il nostro Paese adotta come punto di riferimento fondamentale per la convivenza dei cittadini e la visione dei rapporti internazionali la Costituzione della Repubblica italiana».
Significativo che il Pastore di Milano ponga all’attenzione di tutti il richiamo alla centralità della Costituzione e dei suoi valori per la costruzione del bene comune: «La Carta costituzionale, in quella prima parte dove formula princìpi e valori fondamentali, non può essere ridotta a un documento da commemorare, né a un evento tanto ideale quanto irripetibile, ma deve continuare a svolgere il compito di riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2), al fine di promuovere “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3)». Un faro anche su come procedere nell’oggi: «Il testo della Costituzione ci ricorda innanzitutto un metodo di lavoro, che vale anche per noi: le differenze si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro».
L’Arcivescovo avanza anche un paio di proposte: «Non si potrebbe prendere l’abitudine di aprire ogni Consiglio comunale con la lettura e il commento di qualche articolo della prima parte della Costituzione?». E puntare all’educazione civica: per educare studenti – «che siano italiani da generazioni o che siano provenienti da altri Paesi» – «al pensiero civico e alle responsabilità di cittadini ci vuole una città che si esprima in modo comprensibile e faccia riferimento a valori condivisi».
Capri espiatori e priorità vere
Accade spesso nel dibattito politico quello di cercare nemici e capri espiatori. «In una considerazione pensosa delle prospettive del nostro tempo si dovrà evitare di ridurci a cercare un capro espiatorio: talora, per esempio, il fenomeno delle migrazioni e la presenza di migranti, rifugiati, profughi invadono discorsi e fatti di cronaca, fino a dare l’impressione che siano l’unico problema urgente».
Invece, «si devono nominare tra le problematiche emergenti e inevitabili: la crisi demografica che sembra condannare la popolazione italiana a un inesorabile e insostenibile invecchiamento; la povertà di prospettive per i giovani che scoraggia progetti di futuro e induce molti a trasgressioni pericolose e a penose dipendenze; le difficoltà occupazionali nell’età adulta e nell’età giovanile e le problematiche del lavoro; la solitudine il più delle volte disabitata degli anziani. Queste problematiche sono complesse e non si può ingenuamente presumere di trovare soluzioni facili e rapide. Ma certo la complessità non può convincere a rassegnarsi alla diagnosi e all’elenco dei fattori di disagio».
Di fronte a questi problemi sociali, «la famiglia è la risorsa determinante, è la cellula vivente».
L’appello all’impegno comune
«Invito coloro che hanno responsabilità nella società civile ad affrontare con coraggio le sfide, nella persuasione che questo territorio ha le risorse umane e materiali per vincerle. E nella mia responsabilità di vescovo di questa Chiesa confermo che le nostre comunità sono pronte, ci stanno, sono già all’opera».
Un impegno quotidiano e capillare: «La comunità cristiana, nelle sue articolazioni territoriali e nella sua organizzazione centrale, desidera abitare la città per offrire il suo contributo e collaborare con tutte le istituzioni presenti nel comprendere il territorio, nell’interpretare il tempo, nel promuovere quell’ecologia globale che rende abitabile la terra per questa e per le future generazioni. In questo faccio riferimento con affetto e gratitudine alle indicazioni di papa Francesco nella Laudato si’».