Don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto nazionale dei Tumori, parteciperà alla tavola rotonda al Buzzi il 24 febbraio: «Ci vuole rispetto, silenzio e condivisione del dramma che vivono genitori con bambini gravemente malati. Dalla spiritualità può venire un apporto rilevante alla cura»
di Annamaria
Braccini
Come parlare del dolore innocente, questione che interroga da sempre la fede? Come può farsi prossimo il cappellano di una grande realtà ospedaliera, dove si curano mali che talvolta non lasciano speranze? Se ne discuterà nel convegno del 24 febbraio al Buzzi, aperto dall’Arcivescovo e che vedrà anche una tavola rotonda con la partecipazione di don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto nazionale dei Tumori-Irccs, che ammette di non avere una risposta certa sull’accompagnamento nelle terribili realtà di grave malattia infantile: «È una domanda problematica. Soprattutto quando parliamo di bambini o di giovani pazienti e, conseguentemente, di giovani coppie, colpite da vicende così drammatiche, diventa difficile sapere con certezza cosa fare o non fare. L’importante è iniziare un percorso insieme: dove arrivi tale cammino condiviso, come si snodi, lo si scopre strada facendo e ogni caso ha una storia a sé. Il cardinale Martini diceva che ci troviamo sempre spiazzati di fronte ai grandi interrogativi della vita. Ci vuole rispetto, silenzio e condividere giorno per giorno il dramma che vivono questi genitori e che si percepisce molto bene. Bisogna ascoltare, a volte anche quando le parole sono finite e rimangono solo gli sguardi».
Con lo psicologo clinico Carlo Alfredo Clerici lei ha appena pubblicato il saggio La spiritualità nella cura. Crede in questa alleanza, peraltro incrementata anche attraverso sforzi istituzionali come quello di corsi di formazione ad hoc?
Non solo la ritengo possibile, ma auspicabile. La medicina, la cura – quando è veramente tale – chiede una collaborazione, un aiuto di un simile genere; può nutrirsi di una formazione capace di entrare in sinergia e sintonia con il sistema sanitario nel suo insieme. Il Master universitario di primo livello, organizzato dalla Diocesi di Milano in collaborazione con Regione Lombardia e altre realtà, si muove in tale direzione. È chiaro che dovrà ulteriormente evolversi e svilupparsi, però mi pare molto significativo che l’attenzione della nostra Chiesa vada in questo senso.
Una ricerca condotta qualche anno fa dalla Thomas Jefferson University ha evidenziato l’importanza della preghiera come strumento di cura. È possibile?
Se mi pongo in una prospettiva puramente scientifica diventa difficile sostenerlo in modo definitivo, perché non abbiamo dati certi da questo punto di vista. Ma ciò è vero anche per l’approccio psicologico alla malattia o per la sperimentazione iniziale dei farmaci. Certamente, però, la preghiera può aiutare nel recupero di una salute perduta o precaria.