Fuggito dall’Iran dove era perseguitato e dove vivono ancora la moglie e la figlia, ha ottenuto lo status di rifugiato. È ospite a Casa Suraya e, dopo un corso di formazione organizzato dalla cooperativa Farsi Prossimo, lavora nel locale di una catena di ristorazione a Milano: «Intanto guardo e imparo. Poi vedremo...»

di Francesco CHIAVARINI

Ario Giv

In cucina è il tutto-fare. Taglia, sbuccia e alla fine passa la ramazza.  A lui va bene così. «Quando scappi e cerchi aiuto in un Paese straniero non puoi pretendere di ripartire dal top. Intanto guardo e imparo. Poi vedremo…», sorride dai suoi occhiali tondi da intellettuale Ario Giv, uno dei quattro fortunati profughi che, al termine del corso di formazione organizzato dalla cooperativa Farsi Prossimo di Caritas Ambrosiana, ha potuto iniziare un tirocinio in azienda, nel locale di una nota catena di ristorazione nel centro di Milano.

Ogni mattina Giv lascia la sua stanza a Casa Suraya, il centro di accoglienza intitolato alla prima profuga siriana nata a Milano, a Lampugnano, a poche centinaia di metri dalla tangenziale. Prende la metropolitana e raggiunge il ristorante, in tempo per iniziare il suo turno. La sera fa il percorso inverso. Sui vagoni, mescolato alla folla, Giv potrebbe benissimo essere scambiato per un pendolare qualsiasi: nulla farebbe indovinare la sua storia.

Ingegnere, 37 anni, a Teheran Ario Giv aveva un’azienda che produceva filtri per l’olio delle auto, una giovane moglie e una bambina di 8 mesi. Ha lasciato tutto, perché non poteva più vivere nel suo Paese. Quando Mahmud Ahmadinezhad era ancora presidente della Repubblica islamica, finì per caso nel mirino della polizia. Arrestato senza una ragione, in prigione subì minacce e violenze. Dopo un tentativo fallito di raggiungere la Svezia dalla Germania a ottobre 2015 Ario è stato accolto a Casa Suraya. Qui ha fatto domanda di asilo e solo due mesi dopo ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico che gli dà diritto a un permesso di soggiorno di 5 anni. Nel frattempo ha studiato l’italiano e ha accettato anche di frequentare un corso professionale. Lezioni teoriche e pratiche su nozioni base di cucina. Tre volte alla settimana per un mese. Insieme a 12 altri compagni, tutti richiedenti asilo, provenienti per lo più dall’Africa. Alla fine del corso è stato inserito in azienda come tirocinante insieme agli altri quattro allievi, che nel frattempo hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il contratto è di tre mesi, ma può essere rinnovato.

«Abbiamo aperto Casa Suraya, sistemando un ex convitto di suore, all’inizio dell’emergenza profughi nel 2013 – racconta Annamaria Lodi, presidente della cooperativa Farsi Prossimo che gestisce il centro -. Inizialmente ospitavamo quasi esclusivamente transitanti, profughi siriani di passaggio per Milano. All’epoca il turn-over era velocissimo: i migranti si fermavano qualche giorno, il tempo di riorganizzarsi e poi ripartire. A loro davamo vitto e alloggio, ma non era possibile fare molto di più. Poi, invece, con i controlli alle frontiere ripristinati, abbiamo assistito a un flusso di ritorno, costituito da quelli che tecnicamente chiamiamo “dublinati”, migranti entrati in Europa dall’Italia che, in virtù dell’accordo di Dublino, vengono riaccompagnati nel nostro Paese. È con loro che abbiamo iniziato un lavoro per l’integrazione: alfabetizzazione, corsi professionali, tirocini. Alla fine di questo percorso prevediamo anche l’uscita dal centro in uno degli appartamenti messi a disposizione delle parrocchie. La nostra idea di integrazione passa dal lavoro e dalla casa verso una vita il più possibile simile alla nostra. È un processo lungo, graduale, fatto di piccoli passi, ma riteniamo che possa essere una prospettiva realisticamente percorribile, per l’inserimento e la convivenza con questi nuovi cittadini».

 

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